Con la sentenza n. 9672/2018 i Giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno, nuovamente, affrontato il complesso rapporto debitorio che intercorre tra società di capitali estinta ed i soci della stessa.
La questione sottoposta ai Giudici di legittimità riguarda una cartella di pagamento emessa dall’Agenzia delle Entrate ai sensi dell’art. 36 bis DPR n. 600/73 nei confronti di una società a responsabilità limitata che è stata cancellata dal Registro delle Imprese dopo l’emissione della sentenza, totalmente favorevole alla società contribuente, della Commissione Tributaria Regionale della Puglia.
L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso alla Suprema Corte di Cassazione notificandolo, stante l’intervenuta cancellazione della società dal registro delle imprese, ai soci ed al liquidatore i quali si sono tutti costituti nel giudizio eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva.
L’art. 2495 cc dispone che dopo la cancellazione della società dal Registro delle Imprese, i creditori sociali che non sono stati soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base alle previsioni del bilancio finale di liquidazione.
La questione relativa alla sussistenza di una responsabilità personale dei soci di società di capitali, in caso di cancellazione della società dal Registro delle Imprese in presenza di debiti sociali, è connessa alla natura dichiarativa o costitutiva della formalità pubblicitaria della cancellazione riguardo al momento in cui può considerarsi effettivamente avvenuta l’estinzione della società.
Prima della riforma del diritto societario del 2003, la giurisprudenza maggioritaria riteneva che la formalità della cancellazione avesse natura meramente dichiarativa ed in quanto tale non fosse condizione sufficiente a determinare l’estinzione della società in caso di sopravvivenze attive o sopravvenienze passive. Secondo tale tesi giurisprudenziale, era la società che doveva essere chiamata a rispondere degli eventuali debiti residui o sopravvenuti, previa revoca della procedura di cancellazione dal Registro delle Imprese, ponendo a base l’assunto che la cancellazione era stata eseguita senza i presupposti di legge.
Con la riforma del diritto societario del 2003 il legislatore, con la modifica dell’art. 2495 cc, ha definitivamente sancito la natura costitutiva della formalità di cancellazione della società dal Registro delle Imprese prevedendo come l’eventuale debito sopravvenuto non possa precludere né impedire l’estinzione della società stessa.
La Suprema Corte di Cassazione in passato ha già affrontato la questione della responsabilità dei soci per i crediti sociali non soddisfatti con due sentenze, di fatto, identiche che sono la n. 6070/2013 e la 6072/2013.
In particolare con le due sentenze i Giudici di legittimità hanno sancito:
È bene precisare che con la sentenza n. 6070/2013 e con la sentenza n. 6072/2013 i Giudici di legittimità hanno affrontato due fattispecie simili ma non identiche da quella affrontata dai Giudici con la sentenza n. 9672/2018 difatti le prime due sentenze hanno delineato la sorte dei residui patrimoniali attivi non liquidati prima della cancellazione della società dal Registro delle Imprese.
Con la sentenza n. 6070/2013 e con la sentenza n. 6072/2013 viene sancito che:
La sentenza n. 9672/2018 riguarda, invece, il recupero di crediti da parte dell’Erario per mancati versamenti tributari accertati, definitivamente, successivamente alla cancellazione della società dal Registro delle Imprese.
Premesso che i soci si sono difesi opponendo l’assenza di qualsivoglia riparto finale in loro favore, i Giudici precisano che tale circostanza non è idonea ad impedire l’azione del creditore giacché la ratio dell’art. 2495 cc è quello di evitare l’espropriazione del diritto del creditore da parte della società debitrice chiudendo la liquidazione e cercando di “azzerare” i debiti.
Ecco che dirimente appare proprio il concetto espresso dai Giudici di legittimità: “il creditore mantiene comunque - sempre processualmente parlando - l’interesse ad agire perché interesse dinamico e non limitato dall’effettivo riparto che può essere avvenuto o meno.”
Ed infatti nella sentenza 9672/2018 si legge che “come condivisibilmente osservato nei citati precedenti, poi, la circostanza che i soci abbiano goduto o meno di un qualche riparto, non è dirimente neppure ai fini dell’interesse ad agire del Fisco creditore. Le Sezioni Unite, invero, hanno riconosciuto che la circostanza si potrebbe riflettere sul requisito dell’interesse ad agire, ma hanno ammonito che il creditore potrebbe avere comunque interesse all’accertamento del proprio diritto. Si può porre il caso, che le stesse Sezioni Unite hanno esaminato, di diritti e beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, i quali pur sempre si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con la sola esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo (v., al riguardo, Cass. 19 ottobre 2016, n. 21105, che ha riconosciuto l’interesse ad agire del creditore che abbia esperito azione revocatoria ove la società debitrice alienante si sia estinta per cancellazione dal registro delle imprese). La possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio non consentono, dunque, di escludere l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti. E l’esistenza di questi beni o crediti comporta, come pure rilevato dalle Sezioni Unite, che tra i soci medesimi s’instauri "un regime di contitolarità o di comunione indivisa".
Si può concludere affermando che la responsabilità del socio verso i creditori, dunque, sorge per il semplice fatto della esistenza di creditori che non hanno potuto concorrere alla liquidazione del patrimonio sociale sino a loro soddisfazione e ciò a prescindere da qualsiasi limitazione “quantitativa” di tale responsabilità. Inoltre, l’interesse ad agire dei creditori deve intendersi in senso dinamico ed, in quanto tale, deve ritenersi generalmente sussistente.
Se tali principi erano già stati enunciati, in ambito civilistico, dalle Sezioni Unite con le summenzionate sentenze nn. 6070 e 6072 del 12 marzo 2013, con la sentenza n. 9672/18 la Corte di Cassazione ne afferma e conferma l’applicazione anche in ambito tributario ossia nel caso in cui il creditore insoddisfatto sia l’Erario.
Anzi, in questo specifico caso, seppur in forma dubitativa, i Giudici di legittimità paiono accordare al creditore una tutela ancor più rafforzata infatti facendo riferimento alle peculiarità del processo tributario la Suprema Corte mette in discussione che la stessa eccezione di “difetto di responsabilità” per mancato ricevimento di somme in sede di distribuzione possa essere introdotta in tale sede.
La Corte prende in considerazione, innanzitutto, le caratteristiche formali ed amministrative dell’atto impositivo, che presuppone in ogni caso una iscrizione a ruolo nei confronti del socio quale successore della società per somme già accertate nei confronti di quest’ultima. In secondo luogo, ricorda il principio di impugnabilità degli atti tributari per vizi propri (art. 19, comma 3, del D.Lgs. n. 546/1992) e il divieto di ampliamento dell’oggetto del giudizio (limitato alla sola verifica della fondatezza della pretesa tributaria), elementi tutti che, a mente della Corte, metterebbero in serio dubbio la stessa possibilità di dedurre l’eccezione in oggetto in seno al processo tributario.