Nel sistema processuale civile il decreto di trasferimento di beni immobili è regolamentato dall’art. 586 cpc che è stato parzialmente modificato dalla novella normativa del 2005, con la quale il legislatore ha tramutato in norma quello che la giurisprudenza, consolidatasi negli anni, aveva ormai stabilito in materia di cancellazioni dei gravami. Il legislatore della riforma del processo esecutivo immobiliare ha lasciato, comunque, irrisolte delle situazioni giuridiche che solo le prassi dei Tribunali e degli operatori del settore stanno cercando di risolvere, non solo per portare a conclusione la procedura esecutiva immobiliare, ma anche per rendere accessibili ad un numero sempre più alto di utenti le vendite immobiliari, che, fino a qualche anno fa, non erano pienamente apprezzate dal mercato a discapito sicuramente dei soggetti creditori che agivano nei confronti del debitore per vedersi pagato il loro credito e del debitore stesso che, a seguito della mancata vendita coattiva del proprio immobile, non riusciva, quasi mai, ad onorare i propri debiti.
Il decreto di trasferimento è il provvedimento giudiziale con il quale il Giudice dell’esecuzione trasferisce in favore dell’aggiudicatario la proprietà del bene immobile oggetto di aggiudicazione.
Esso è un atto pubblico in quanto viene emesso dal Giudice dell’esecuzione nell’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali e, per espressa previsione normativa, rimane di esclusiva competenza del Giudice stesso anche se, ai sensi dell’art. 591 bis c.8 cpc, la bozza del decreto deve essere predisposta dal professionista delegato e trasmessa al Giudice non appena viene versato dall’aggiudicatario il saldo prezzo, maggiorato della somma relativa alle imposte di trasferimento.
Il decreto, come previsto dall’art. 586 cpc, viene emesso dal Giudice dell’esecuzione dopo che lo stesso ha accertato l’avvenuto pagamento integrale del saldo prezzo e quando, il Giudice, non ritiene di dover sospendere la vendita nel caso in cui il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto. (Trib. di Palermo ord. del 27.05.2015)
Con il decreto di trasferimento il Giudice trasferisce la proprietà del bene oggetto di aggiudicazione, ordina la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie salvo quelle che si riferiscono alle obbligazioni assunte dall’aggiudicatario ai sensi dell’art. 508 cpc con liberazione del debitore ed, infine, ingiunge al debitore ed a chiunque occupi il bene senza titolo opponibile alla procedura di rilasciare libero da persone e/o cose l’immobile venduto. Tra le finalità del decreto di trasferimento, sicuramente, la principale è quella di trasferire il bene immobile pignorato all’aggiudicatario, tramutando il bene stesso in denaro. (Cass. Sez. 3° ordinanza n. 371 del 11.01.2007)
L’art. 2643 n. 6) cc statuisce che i provvedimenti con i quali nell’esecuzione forzata si trasferisce la proprietà di beni immobili devono essere resi pubblici tramite la trascrizione degli stessi presso la competente Agenzia del Territorio - servizio pubblicità immobiliare. La trascrizione del decreto ha funzione di pubblicità di natura dichiarativa.
Per espressa previsione normativa il Giudice, con la pronuncia del decreto, ordina la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e le iscrizioni ipotecarie.
Il dato normativo appare chiaro con le modifiche apportate all’art. 586 cpc. Il legislatore ha dato infatti il potere al Giudice di ordinare la cancellazione dei pignoramenti trascritti e delle ipoteche iscritte anche dopo il pignoramento che ha provocato il processo esecutivo immobiliare. Con questa previsione normativa il legislatore ha voluto rendere facilmente trasferibili gli immobili acquistati dalle procedure esecutive immobiliari, senza lasciarli onerati da gravami che, seppur inefficaci, in quanto iscritti e trascritti dopo il pignoramento, limitavano il trasferimento dei beni immobili, specialmente nel caso in cui il pagamento del corrispettivo di una successiva compravendita degli stessi avveniva mediante la contrazione di un mutuo ipotecario.
Come ogni atto emesso dal Giudice dell’esecuzione dopo che il processo esecutivo è stato incardinato, anche il decreto di trasferimento è soggetto a gravame secondo le previsioni e nelle forme previste dall’art. 617 cpc, entro il termine perentorio di venti giorni da quando l’interessato all’opposizione ne viene a conoscenza. È pacifico che l’opponente deve dimostrare l’interesse, concreto, ad agire individuato dall’art. 100 cpc.
Per procedere alla cancellazione dei gravami, il conservatore dei registri immobiliari necessita del decreto di trasferimento munito della dichiarazione di mancata opposizione, che dovrà apporre il cancelliere sul decreto stesso e, pertanto, sarà necessario notificare il decreto di trasferimento a tutte le parti che nel processo esecutivo potrebbero avere un interesse concreto ad agire, e, in particolare, al debitore esecutato ed ai creditori non intervenuti nel processo esecutivo che sui beni pignorati hanno un diritto di prelazione risultante dai pubblici registri.
L’art. 586 cpc permette al Giudice di ordinare la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie ma non dà al Giudice la possibilità di ordinare la cancellazione di eventuali altri gravami trascritti sull’immobile che, spesso, possono emergere da una attenta lettura sia della certificazione ipotecaria, che in alternativa può essere sostituita dalla certificazione redatta da un notaio, allegata all’istanza di vendita sia dalla certificazione ipotecaria che il professionista delegato alla vendita dovrà nuovamente estrarre dal pubblico registro al momento dell’avvenuta aggiudicazione del bene immobile per verificare eventuali nuove trascrizioni e iscrizioni intervenute dopo il pignoramento. In ogni caso il professionista dovrà informare il Giudice della presenza di trascrizioni pregiudizievoli sull’immobile mediante ricorso ai sensi dell’art. 591 ter cpc e, nel caso di prosecuzione del processo esecutivo, dovrà indicare nell’avviso di vendita redatto ai sensi dell’art. 570 cpc la sussistenza di gravami per i quali il Giudice non potrà ordinare la cancellazione.
Può ordinare la cancellazione delle domande giudiziali trascritte ai sensi degli artt. 2652 e 2653 cc solo il Giudice, inteso come Ufficio Giudiziario, competente per l’azione giudiziale e solo se il relativo giudizio è stato definito con sentenza passata in giudicato o se il giudizio è estinto. Nel caso in cui il giudizio, di cui alla domanda giudiziale trascritta, sia ancora pendente, il professionista delegato avrà il compito di verificare il tipo di azione proposta e lo stato effettivo del giudizio. Particolare attenzione dovrà essere prestata all’azione di usucapione che in caso di accoglimento potrebbe addirittura “paralizzare” il processo esecutivo immobiliare anche se trascritta successivamente al pignoramento stante la natura della relativa sentenza che costituisce la proprietà dell’immobile in favore dell’attore sin dal momento in cui è stata accertata la effettiva proprietà in capo all’attore stesso.
Il sequestro conservativo dei beni del debitore chiesto ai sensi dell’art. 2905 cc è opponibile alla procedura esecutiva immobiliare solo se trascritto anteriormente al pignoramento. L’art. 586 cpc non indica tra i gravami per i quali il Giudice dell’esecuzione può ordinare la cancellazione il sequestro conservativo. Può accadere che il sequestro conservativo trascritto sul bene immobile sia quello che poi, convertito in pignoramento, ha provocato il processo esecutivo immobiliare. Partendo da questo assunto si potrebbe desumere che il Giudice possa emettere l’ordine di cancellazione del sequestro conservativo, almeno quello convertito in pignoramento, nel decreto di trasferimento e considerare il “silenzio” dell’art. 586 cpc solo una lacuna colmabile con l’analogia attingendo alle previsioni di cui all’art. 108 lf che prevede che il Giudice delegato ha il potere di ordinare la cancellazione anche dei sequestri conservativi. L’impossibilità per il Giudice dell’esecuzione di ordinare la cancellazione dei sequestri conservativi creerebbe uno iato tra le due procedure espropriative, fallimentare ed esecutiva immobiliare, tale da generare una differente appetibilità degli immobili da parte del mercato.
Le servitù prediali, se trascritte ai sensi dell’art. 2643 c. 1 n.4 prima del pignoramento, sono opponibili allo stesso e non ne può essere ordinata la cancellazione e, pertanto, vengono “trasferite” con l’immobile sul quale gravano. Alcune categorie di servitù sono opponibili al pignoramento anche se trascritte dopo il pignoramento stesso, trattasi delle servitù coattive previste dall’art. 1049 e seguenti cc. Della presenza di tali servitù ne deve essere data adeguata notizia nell’avviso di vendita previsto dall’art. 570 cpc.
Possono gravare sull’immobile esecutato delle convenzioni edilizie e le stesse sono opponibili al pignoramento solo se trascritte antecedentemente allo stesso ai sensi dell’art. 2643 c. 1 n. 2 bis) cc, di tali gravami il Giudice non può ordinarne la cancellazione. I termini delle convenzioni edilizie possono essere ricondotti alla previsione del pagamento degli oneri di urbanizzazione mediante l’impegno dell’impresa costruttrice all’effettuazione di lavori, concordati, in nome e per conto dell’ente pubblico. Solo quando l’impresa costruttrice avrà eseguito completamente i lavori indicati nella convenzione l’ente pubblico dichiarerà l’avvenuto adempimento della convenzione. Nel caso di inadempimento da parte dell’impresa costruttrice l’ente pubblico potrà chiedere ai successivi proprietari degli immobili, divenuti tali anche in forza di decreto di trasferimento, la corresponsione delle somme necessarie per il completo adempimento risultante dall’obbligo assunto dall’impresa costruttrice nella convenzione edilizia. In caso di trascrizione opponibile al pignoramento di una convenzione edilizia, sarà necessario che l’esperto nominato ai sensi dell’art. 568 cpc relazioni in merito all’entità dei lavori ancora ineseguiti con la quantificazione degli stessi e l’imputazione, in quota, all’immobile pignorato.
Il fondo patrimoniale è regolamentato dagli artt. 167 e ss cc, in particolare l’art. 167 cc prevede che, tra gli altri beni, anche i beni immobili possono essere destinati a far fronte dei bisogni della famiglia. L’art. 2647 cc prevede che la costituzione del fondo patrimoniale deve essere trascritta e, pertanto, è proprio la trascrizione precedente al pignoramento che ne provoca l’opponibilità allo stesso. L’esecuzione sui beni del fondo e sui relativi frutti non può avere luogo per debiti contratti per scopi estranei ai bisogni di famiglia. L’esecuzione immobiliare può essere iniziata dal creditore con prelazione iscritta presso i pubblici registri antecedentemente alla trascrizione del fondo patrimoniale.
Il Giudice dell’esecuzione non può ordinare la cancellazione della sentenza di fallimento, neanche se è stata trascritta dopo il pignoramento. L’ordine di cancellazione della sentenza di fallimento potrà essere emesso dal Giudice delegato al fallimento ai sensi dell’art. 108 lf. Il curatore fallimentare ha la facoltà di subentrare nel processo esecutivo immobiliare o di chiedere l’improcedibilità dello stesso al Giudice dell’esecuzione. Il disposto di cui all’art. 107 c. 6 lf fa prevede che il Giudice dell’esecuzione deve dichiarare l’improcedibilità del processo esecutivo su richiesta del curatore fallimentare, che esercita quindi un diritto potestativo, salvo il caso in cui nell’esecuzione non sia stata promossa, o sia intervenuto, un creditore ipotecario con privilegio fondiario.
Particolare attenzione si deve prestare all’effetto dirompente che potrebbe avere, riguardo all’esecuzione immobiliare, il cosiddetto “patto marciano”. L’art. 2 del DL 3 maggio 2016 n. 59, convertito nella L 30 giugno 2016 n. 119, prevede che il contratto di finanziamento concluso tra un imprenditore ed una banca può essere garantito dal trasferimento, in favore dell’istituto bancario, della proprietà di un immobile sospensivamente condizionato all’adempimento del debitore. Il patto trascritto prevale sulle iscrizioni e trascrizioni successive allo stesso. Nel caso in cui il finanziamento sia già garantito da una iscrizione ipotecaria, gli effetti del patto, con lo stesso meccanismo protettivo previsto dalla trascrizione delle domande giudiziali, retroagiscono alla data di iscrizione dell’ipoteca, con il conseguente travolgimento anche del pignoramento immobiliare e, quindi, del processo esecutivo immobiliare, facendo salva solo l’aggiudicazione anche se provvisoria, così come previsto dall’art. 4 DL 3 maggio 2016 n. 59 convertito nella L 30 giugno 2016 n. 119.
L’art. 108 della legge fallimentare statuisce che “Per i beni immobili e gli altri beni iscritti nei pubblici registri, una volta eseguita la vendita e riscosso interamente il prezzo, il giudice delegato ordina, con decreto, la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo.”
Dalla lettura della norma si evince che il Giudice delegato può ordinare la cancellazione dei gravami solo quando la vendita è stata eseguita ed il relativo prezzo è stato interamente riscosso.
Si deduce che la previsione dell’articolo in esame è applicabile solo quando è stata eseguita una vendita competitiva ai sensi dell’art. 107 lf e ciò anche a seguito della collocazione topografica della previsione normativa di cui all’art. 108 lf.
Le previsioni di cui al secondo comma dell’art. 108 lf non possono essere applicate nel caso in cui la vendita venga effettuata a seguito del subentro del curatore in un contratto preliminare di compravendita pendente alla data della sentenza di fallimento. In questa fattispecie, il curatore, prima di subentrare nel contrato preliminare pendente, dovrà concludere con i creditori che vantano una prelazione iscritta sul bene oggetto di contratto preliminare, un accordo, in ipotesi anche economico, volto all’ottenimento dell’assenso della cancellazione delle prelazioni iscritte. La mancanza dell’accordo determinerà per il curatore l’impossibilità di subentro nel preliminare di compravendita pendente alla data della sentenza di fallimento.
La problematica rimane aperta nel caso in cui il contratto preliminare di vendita sia stato trascritto ai sensi dell’art. 2645 bis cc ed ha ad oggetto un immobile ad uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado ovvero un immobile ad uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell’impresa dell’acquirente. Nelle fattispecie appena riportate il curatore deve obbligatoriamente subentrare nel contratto preliminare di compravendita e, pertanto, il promittente acquirente si troverà sull’immobile acquistato iscritte le ipoteche che non potranno essere cancellate in quanto il Giudice delegato è impossibilitato ad emettere il relativo ordine di cancellazione.
Il Giudice delegato al fallimento, a differenza del Giudice dell’esecuzione, può ordinare la cancellazione anche dei sequestri conservativi e di tutti gli altri vincoli che gravano sul bene oggetto di vendita come la sentenza di fallimento e il decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo.
Il curatore fallimentare potrà procedere con la messa in esecuzione dell’ordine di cancellazione quando avverso il decreto del Giudice delegato non sia stato proposto reclamo ai sensi dell’art. 26 lf.
Il decreto di trasferimento contiene anche l’ingiunzione del Giudice volta al rilascio del bene immobile effettuata nei confronti del debitore e dei terzi che occupano l’immobile stesso senza titolo opponile alla procedura esecutiva immobiliare così come previsto dal comma 2 dell’art. 586 cpc ed inoltre il decreto è anche titolo esecutivo per il rilascio dell’immobile trasferito a favore dell’aggiudicatario.
In questo caso il decreto di trasferimento dovrà essere munito della formula esecutiva, apposta da parte del cancelliere, e messo in esecuzione mediante le formalità previste dall’art. 605 e ss cpc pertanto dovrà essere notificato alla parte che occupa l’immobile mediante il precetto.
La previsione normativa deve essere considerata come l’ultima “spiaggia” concessa all’aggiudicatario, ormai proprietario, dell’immobile che, per una sua scelta, ha rinunciato alla messa in esecuzione, in suo favore, dell’ordine di liberazione di cui il procedimento è regolamentato dall’art. 560 cpc. (Cass. Sez. III° sent. n. 6834/2015)
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Le nuove esecuzioni immobiliari; Manuale dell’esecuzione forzata; Il custode e il delegato alla vendita nella nuova esecuzione immobiliare.
Con la sentenza n. 9672/2018 i Giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno, nuovamente, affrontato il complesso rapporto debitorio che intercorre tra società di capitali estinta ed i soci della stessa.
La questione sottoposta ai Giudici di legittimità riguarda una cartella di pagamento emessa dall’Agenzia delle Entrate ai sensi dell’art. 36 bis DPR n. 600/73 nei confronti di una società a responsabilità limitata che è stata cancellata dal Registro delle Imprese dopo l’emissione della sentenza, totalmente favorevole alla società contribuente, della Commissione Tributaria Regionale della Puglia.
L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso alla Suprema Corte di Cassazione notificandolo, stante l’intervenuta cancellazione della società dal registro delle imprese, ai soci ed al liquidatore i quali si sono tutti costituti nel giudizio eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva.
L’art. 2495 cc dispone che dopo la cancellazione della società dal Registro delle Imprese, i creditori sociali che non sono stati soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base alle previsioni del bilancio finale di liquidazione.
La questione relativa alla sussistenza di una responsabilità personale dei soci di società di capitali, in caso di cancellazione della società dal Registro delle Imprese in presenza di debiti sociali, è connessa alla natura dichiarativa o costitutiva della formalità pubblicitaria della cancellazione riguardo al momento in cui può considerarsi effettivamente avvenuta l’estinzione della società.
Prima della riforma del diritto societario del 2003, la giurisprudenza maggioritaria riteneva che la formalità della cancellazione avesse natura meramente dichiarativa ed in quanto tale non fosse condizione sufficiente a determinare l’estinzione della società in caso di sopravvivenze attive o sopravvenienze passive. Secondo tale tesi giurisprudenziale, era la società che doveva essere chiamata a rispondere degli eventuali debiti residui o sopravvenuti, previa revoca della procedura di cancellazione dal Registro delle Imprese, ponendo a base l’assunto che la cancellazione era stata eseguita senza i presupposti di legge.
Con la riforma del diritto societario del 2003 il legislatore, con la modifica dell’art. 2495 cc, ha definitivamente sancito la natura costitutiva della formalità di cancellazione della società dal Registro delle Imprese prevedendo come l’eventuale debito sopravvenuto non possa precludere né impedire l’estinzione della società stessa.
La Suprema Corte di Cassazione in passato ha già affrontato la questione della responsabilità dei soci per i crediti sociali non soddisfatti con due sentenze, di fatto, identiche che sono la n. 6070/2013 e la 6072/2013.
In particolare con le due sentenze i Giudici di legittimità hanno sancito:
È bene precisare che con la sentenza n. 6070/2013 e con la sentenza n. 6072/2013 i Giudici di legittimità hanno affrontato due fattispecie simili ma non identiche da quella affrontata dai Giudici con la sentenza n. 9672/2018 difatti le prime due sentenze hanno delineato la sorte dei residui patrimoniali attivi non liquidati prima della cancellazione della società dal Registro delle Imprese.
Con la sentenza n. 6070/2013 e con la sentenza n. 6072/2013 viene sancito che:
La sentenza n. 9672/2018 riguarda, invece, il recupero di crediti da parte dell’Erario per mancati versamenti tributari accertati, definitivamente, successivamente alla cancellazione della società dal Registro delle Imprese.
Premesso che i soci si sono difesi opponendo l’assenza di qualsivoglia riparto finale in loro favore, i Giudici precisano che tale circostanza non è idonea ad impedire l’azione del creditore giacché la ratio dell’art. 2495 cc è quello di evitare l’espropriazione del diritto del creditore da parte della società debitrice chiudendo la liquidazione e cercando di “azzerare” i debiti.
Ecco che dirimente appare proprio il concetto espresso dai Giudici di legittimità: “il creditore mantiene comunque - sempre processualmente parlando - l’interesse ad agire perché interesse dinamico e non limitato dall’effettivo riparto che può essere avvenuto o meno.”
Ed infatti nella sentenza 9672/2018 si legge che “come condivisibilmente osservato nei citati precedenti, poi, la circostanza che i soci abbiano goduto o meno di un qualche riparto, non è dirimente neppure ai fini dell’interesse ad agire del Fisco creditore. Le Sezioni Unite, invero, hanno riconosciuto che la circostanza si potrebbe riflettere sul requisito dell’interesse ad agire, ma hanno ammonito che il creditore potrebbe avere comunque interesse all’accertamento del proprio diritto. Si può porre il caso, che le stesse Sezioni Unite hanno esaminato, di diritti e beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, i quali pur sempre si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con la sola esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo (v., al riguardo, Cass. 19 ottobre 2016, n. 21105, che ha riconosciuto l’interesse ad agire del creditore che abbia esperito azione revocatoria ove la società debitrice alienante si sia estinta per cancellazione dal registro delle imprese). La possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio non consentono, dunque, di escludere l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti. E l’esistenza di questi beni o crediti comporta, come pure rilevato dalle Sezioni Unite, che tra i soci medesimi s’instauri "un regime di contitolarità o di comunione indivisa".
Si può concludere affermando che la responsabilità del socio verso i creditori, dunque, sorge per il semplice fatto della esistenza di creditori che non hanno potuto concorrere alla liquidazione del patrimonio sociale sino a loro soddisfazione e ciò a prescindere da qualsiasi limitazione “quantitativa” di tale responsabilità. Inoltre, l’interesse ad agire dei creditori deve intendersi in senso dinamico ed, in quanto tale, deve ritenersi generalmente sussistente.
Se tali principi erano già stati enunciati, in ambito civilistico, dalle Sezioni Unite con le summenzionate sentenze nn. 6070 e 6072 del 12 marzo 2013, con la sentenza n. 9672/18 la Corte di Cassazione ne afferma e conferma l’applicazione anche in ambito tributario ossia nel caso in cui il creditore insoddisfatto sia l’Erario.
Anzi, in questo specifico caso, seppur in forma dubitativa, i Giudici di legittimità paiono accordare al creditore una tutela ancor più rafforzata infatti facendo riferimento alle peculiarità del processo tributario la Suprema Corte mette in discussione che la stessa eccezione di “difetto di responsabilità” per mancato ricevimento di somme in sede di distribuzione possa essere introdotta in tale sede.
La Corte prende in considerazione, innanzitutto, le caratteristiche formali ed amministrative dell’atto impositivo, che presuppone in ogni caso una iscrizione a ruolo nei confronti del socio quale successore della società per somme già accertate nei confronti di quest’ultima. In secondo luogo, ricorda il principio di impugnabilità degli atti tributari per vizi propri (art. 19, comma 3, del D.Lgs. n. 546/1992) e il divieto di ampliamento dell’oggetto del giudizio (limitato alla sola verifica della fondatezza della pretesa tributaria), elementi tutti che, a mente della Corte, metterebbero in serio dubbio la stessa possibilità di dedurre l’eccezione in oggetto in seno al processo tributario.
Il nuovo Codice della Crisi e dell’Insolvenza riporta all’articolo 2, comma 1 lettere a), b) e c) le definizioni di crisi, insolvenza e sovraindebitamento. Nella lettera della norma, le descrizioni fatte dal Legislatore assumono un’elevata caratteristica letteraria.
Per la prima volta nel nostro ordinamento giuridico il Legislatore ha voluto descrivere una situazione economica in maniera indefinita e non priva di incertezza, con una modalità che si discosta notevolmente dalla definizione basata su rigidi e ineludibili parametri numerici quale è l’attuale formulazione dell’articolo 1 della Legge Fallimentare del 1942.
La volontà del Legislatore, quindi, si basa chiaramente sulla necessità di regolamentare una realtà economica dell’impresa che non ha più caratteristiche e definizioni unitarie, ma che si mostra con poliedriche facce difficilmente codificabili e parametrabili; e lo dimostra dandone una illustrazione fluida ed elastica, che ben dovrebbe consentire di descrivere il momento di una realtà viva e in divenire qual è l’impresa.
Stupisce quindi quando si verifica che la portata dell’articolo 2 CCI si scontra con il dettame degli articoli 12, 13 e 15 del CCI i quali intenderebbero, nel momento in cui tale crisi emerge nella realtà aziendale, restituire alla suddetta normativa una rigidità di parametri e di risultati numerici che l’articolo 2 del CCI non prevede.
Lo scopo del presente studio è quindi quello di cercare di delineare e concretizzare la definizione di crisi d’impresa e del momento dell’allerta; cioè il momento nel quale tale crisi emerge, con variabili verificabili sia dall’interno che dall’esterno del sistema, verificando poi quali siano gli strumenti migliori per l’emersione.
Darne quindi un approccio aziendalistico reale e realizzabile sia dall’imprenditore dell’impresa fallibile, ma non grande, quanto dagli organi di controllo delle società dimensionalmente maggiori; sia ai fini dell’emersione della crisi e quindi dello stato di allerta, sia per dotarsi dei necessari strumenti per il superamento del momento di difficoltà. Superare gli errori dell’articolo 15, 1 e 2 comma CCI, utilizzando a tal fine le moderne metodologie della pratica aziendalistica.
Il lavoro è strutturato come segue: nell’ambito dell’analisi per indici, il lavoro ne illustra i limiti; nell’ambito dell’analisi per flussi viene indicata in maniera breve una metodologia di applicazione con il rendiconto finanziario, del quale esistono modelli diversi di rappresentazione dei flussi in base alla definizione di flussi finanziari.
Gli articoli del CCI a cui il presente lavoro fa riferimento sono:
Art. 2 Definizioni
CAPO I STRUMENTI DI ALLERTA
Art. 12
Nozione, effetti e ambito di applicazione
Art. 13 Indicatori della crisi
Art. 15
Obbligo di segnalazione di creditori pubblici qualificati
Comma 1 e 2
Definizione del concetto di crisi.
Negli articoli del CCI sopra indicati, emerge una realtà giuridica facilmente rappresentabile: da un lato l’impresa, descritta quale sistema di valori in evoluzione non codificabile entro leggi rigide e parametrate; dall’altro la stessa realtà analizzata e giudicata in base a criteri aziendalistici e giuridici che non possono assolutamente portare ai risultati previsti e richiesti dalla norma.
Per definire cosa è la crisi bisogna pensare che, essendo lo scopo dell’impresa accrescere il valore del capitale economico, non solo un andamento negativo del valore, derivabile sia dall’incapacità di realizzare i flussi di reddito o di cassa attesi sia dall’aggravamento del livello di rischio delle strategie aziendali è configurabile come crisi, ma anche una situazione di staticità o diminuzione del valore è interpretabile come segnale di potenziali squilibri. Ne consegue quindi che, quando la perdita di flussi risulti “sistematica e irreversibile senza interventi risanatori o di ristrutturazione” si può parlare di crisi dell’economicità dell’impresa che si traduce quasi sempre in gravi carenze sul piano finanziario: crisi di liquidità, difficoltà nell’accesso al credito e perdita di fiducia degli stakeholders aziendali. Quando la crisi raggiunge il suo massimo livello, allora si comincia a parlare di insolvenza, che rappresenta una condizione permanente di squilibrio patrimoniale, irrimediabile senza l’assenso dei finanziatori a rinunciare alla riscossione immediata dei crediti loro spettanti.
Possono essere identificate cinque grandi macroclassi di cause dalle quali può originarsi lo stato di declino e/o crisi:
La percezione immediata dei sintomi indicatori di uno stato di distruzione del valore è fondamentale per aumentare le probabilità di conservazione dell’impresa in funzionamento; è chiaro quindi che l’allerta, così come disegnata dalle prime bozze della riforma, avrebbe dovuto essere lo stadio nel quale veniva fornito all’imprenditore o all’organo amministrativo lo strumento per questa immediata percezione. Ma ciò che si legge nell’attuale previsione normativa, non soddisfa affatto la possibilità di creare all’interno dell’impresa quella percezione sopra indicata.
ART. 13 CCI – Strumenti per la verifica dell’esistenza della crisi
Nell’articolo 13 del CCI, gli strumenti indicati per tale verifica, sono indici.
L’indice è un elemento di analisi, ormai per unanime dottrina, che può dare unicamente risultati statici, incapaci quindi di verificare una realtà fluida quale è quella dell’impresa, quantomeno nell’analisi della sostenibilità dei debiti e della continuazione dell’attività nei sei mesi successivi come previsto dalla norma.
Solo in teoria l’analisi per indici potrebbe dare delle indicazioni o delle tendenze, perché in realtà si tratta, come già detto, di un’analisi statica mentre la gestione è tipicamente caratterizzata dal requisito della dinamicità.
L‘analisi del bilancio d’esercizio condotta per indici è, tra gli strumenti disponibili, quella di cui più spesso viene messa in discussione l’utilità in ragione del fatto che i dati contabili sui quali sono costruiti gli indici risentono di un ineliminabile livello di astrazione e di ipotesi formulate dagli amministratori che redigono il bilancio, tale da renderlo scarsamente rappresentativo della realtà nonostante il rigoroso dettato normativo che guida la sua redazione. Tuttavia, se da una parte è vero che l’affidabilità di un bilancio è legata all’attendibilità dei dati contabili sui quali è costruito, è utile tenere presente che i risultati che emergono dall’analisi per indici condotta sui bilanci delle aziende non offrono un giudizio unico ed inequivocabile: esso è infatti sempre legato alla capacità interpretativa dell’analista, sia esso interno che esterno, questa dipendendo dal grado di esperienza e dalla conoscenza delle motivazioni e delle ipotesi che hanno guidato gli amministratori nella redazione del bilancio.
Lo scrivente, quindi, si permette di indicare quale strumento più idoneo un’indagine per flussi, che potrebbe generare un’attendibile verifica dell’allerta in merito alla continuità aziendale; ma l’analisi per flussi assume un significato aziendalistico se effettuata non a posteriori su dati storici, ma bensì in un sistema organizzato dato da un insieme di piani a lungo termine, budget esplicativi di quei piani, strumenti per la verifica a posteriore degli scostamenti, analisi degli scostamenti, ricerca della soluzione per annullare gli scostamenti. E ciò perché il fenomeno della crisi d’impresa si configura come un fenomeno di natura sistemica, che interessa l’impresa nella sua interezza e si materializza in un processo degenerativo autoalimentantesi che solo un processo di segno opposto può rimediare e annullare.
L’adozione di metodologie basate sui flussi si confà meglio alle situazioni di continuità poiché prevede nelle sue metodologie l’analisi di singoli asset espressi al valore d’uso. Occorre far presente come, allorquando il processo di risoluzione della crisi sia stato avviato e/o portato a compimento anche solo con la riduzione dell’indebitamento e/o la ridefinizione delle scadenze di rimborso dello stesso, si venga inevitabilmente a creare una discontinuità tra l’andamento dei flussi storici e di quelli prospettici e questa discontinuità è quello scostamento il cui studio realizza risultati nell’impresa. Un ulteriore elemento da considerare nella stima dei flussi attesi, distinti per singolo periodo, attiene all’effettiva coerenza tra flussi in entrata e flussi in uscita.
Il presupposto dell’analisi attraverso la quantificazione dei valori dell’impresa risiede nella possibilità di combinare sinergicamente le risorse esistenti con nuove prospettive gestionali, al fine di avviare un processo virtuoso.
E’ importante, quindi, codificare la metodologia per la valorizzazione delle risorse, secondo il seguente schema: valore per il mercato (vitale per i clienti e per il mercato); grado di unicità; durevolezza; estensibilità (opzioni reali).
La comprensione del contesto valutativo si raggiunge tramite l’acquisizione della base informativa, la quale comprende un’analisi strategica concernente il quadro macroeconomico, quello settoriale e quello specifico dell’unità oggetto di stima, un’analisi quantitativa dei risultati storici e poi delle previsioni sia degli scenari futuri sempre relativi ai tre quadri, sia dei flussi economici e finanziari della medesima unità.
E’ importante quindi analizzare l’impresa secondo tre contesti valutativi: se l’impresa è in tensione finanziaria (con o senza equilibrio economico); se l’impresa è in disequilibrio economico e in crisi reversibile; se l’impresa è in disequilibrio economico e in crisi irreversibile. La varietà di indicatori o leve impiegabili per definire lo stato in cui l’azienda versa, e soprattutto le possibili strade di uscita dallo stesso, comporta che i confini di ciascun contesto valutativo non possano essere tracciati in modo oggettivo, nonostante il ricorso alle grandezze economico-finanziarie. Il passaggio di un’azienda da un contesto all’altro può essere lento o repentino a seguito di un evento significativo sulla dinamica dei flussi e sui conseguenti equilibri di bilancio.
L’obiettivo è individuare le condizioni di applicabilità e i criteri, in relazione ai quali scegliere il metodo più corretto per procedere alla valutazione di un’azienda per verificarne l’eventuale stato di crisi.
In definitiva si può quindi dire che una prima analisi dinamica dell’impresa necessiti dei seguenti criteri di valutazione:
La formulazione del metodo patrimoniale semplice è la seguente:
Ve = K0 = C + [ΣP – ΣM] (1- t)
dove:
Ve è il valore del capitale economico,
K0 è il capitale netto rettificato a valori correnti, C è il capitale netto contabile,
P sono le plusvalenze originate dagli elementi patrimoniali, M sono le minusvalenze originate dagli elementi patrimoniali
t è l’aliquota fiscale potenziale da applicarsi al saldo (se positivo) fra plusvalenze e minusvalenze.
La formulazione del metodo Patrimoniale Complesso è la seguente:
Ve = K’0 + BI (1-t)
dove:
K’0 è il patrimonio netto rettificato con esclusione dei beni immateriali, BI sono i beni immateriali.
E’ chiaro che questo tipo di valutazioni non sono riconducibili al dettame di cui all’articolo 13 CCI; ne consegue che un’analisi fatta secondo le indicazioni del codice potrebbe portare alla creazioni di imprese false positive rispetto alla verifica di uno stato di crisi. E che le imprese che, non rientrando nella casistica di cui alla definizione di sovraindebitamento, volessero dotarsi degli strumenti corretti, come sopra indicati, avrebbero la necessità di affrontare grossi investimenti che potrebbero mettere a rischio il loro equilibrio economico e finanziario.
Analogamente, le voci di Stato patrimoniale iscritte nel Passivo (o Fonti di Finanziamento o Struttura Finanziaria) devono essere riclassificate in base alla natura dei finanziatori, ossia in relazione al fatto che esse siano apportate da Soci o da Possessori di quote del capitale sociale o da Finanziatori terzi esterni, distinguendo tra Finanziatori in Capitale di Rischio e Finanziatori in Capitale di Credito. Le fonti di finanziamento sono ulteriormente riclassificate in base alla loro durata, ossia in relazione al tempo di rimborso, individuato nel parametro temporale dell’esercizio.
Distingueremo quindi le Fonti finanziarie del capitale permanente (o Capitale proprio o Patrimonio Netto o Finanziamenti a lungo termine erogati a favore dell’azienda sotto forma di indebitamento o passività consolidate) dalle Fonti finanziarie a breve termine o passivo corrente.
Il documento per la ricostruzione dei flussi finanziari della gestione è il principio contabile “OIC 10, Rendiconto finanziario”, documento peraltro reso obbligatorio dall’articolo 2423, comma 1, del codice civile, il cui scopo è quello di definire i criteri per la redazione e presentazione dei flussi finanziari generati e/o assorbiti dalla gestione complessivamente considerata ricostruendo le cause di variazione delle disponibilità liquide nell’esercizio al fine di valutare la situazione finanziaria della società, o del gruppo di imprese, e la sua evoluzione nel tempo. Il rendiconto finanziario fornisce inoltre altre informazioni sulle disponibilità liquide prodotte/assorbite dall’attività operativa e modalità di impiego/copertura, sulla capacità di far fronte agli impegni finanziari a breve termine, sulla capacità di autofinanziamento.
Per la redazione del rendiconto finanziario viene quindi calcolato il flusso finanziario determinabile con due metodi: il metodo diretto e il metodo indiretto.
Nel metodo indiretto il Flusso finanziario della gestione reddituale viene ricavato partendo dal risultato economico dell’esercizio ed effettuando le rettifiche relative alle seguenti voci: operazioni che non hanno determinato variazioni monetarie e componenti di reddito associati ai flussi derivanti dalle attività di investimento e di finanziamento. Si tratta quindi di una riconciliazione tra il reddito economico, calcolato sulla base del principio di competenza e il flusso di cassa monetario generato dalla gestione corrente.
Nel metodo diretto, che è quello più semplice da un punto di vista concettuale e più efficace da un punto di vista espositivo, vengono fornite informazioni che possono essere utili nella stima dei futuri flussi finanziari che non sono disponibili con il metodo indiretto, e sono altresì oggetto di analisi:
Nel Rendiconto Finanziario, quindi, le variazioni sono rappresentate dai flussi finanziari le cui variabili sono date da aumenti e diminuzioni derivanti dall’attività operativa, dall’attività di investimento e dall’attività di finanziamento; e l’attività operativa è data dalle operazioni connesse all’acquisizione, produzione e distribuzione di beni e alla fornitura di servizi, anche se riferibili a gestioni accessorie; l’attività di investimento è data dalle operazioni di acquisto e di vendita delle immobilizzazioni materiali, immateriali e finanziarie e delle attività finanziarie non immobilizzate; e l’attività di finanziamento è data dalle operazioni di ottenimento e di restituzione delle disponibilità liquide sotto forma di capitale di rischio o di capitale di debito.
L’attuale versione del principio contabile che norma la costruzione del rendiconto finanziario indica esplicitamente un preciso aggregato contabile di riferimento, ovvero le disponibilità liquide. Il nuovo principio contabile raccomanda l’utilizzo di questo unico aggregato e, pertanto, anche l’adozione di un unico modello di rendiconto atto a rappresentare i flussi finanziari generati e/o assorbiti dalla gestione: il rendiconto finanziario delle disponibilità liquide costruito sulla base di quello adottato nella prassi internazionale al fine di favorire la comparabilità nel tempo e nello spazio tra bilanci aziendali, o tra gruppi di imprese.
Le diverse definizioni e configurazioni del flusso di cassa fanno emergere un ulteriore interrogativo: posto che il flusso di cassa di periodo si intende in termini di gestione complessiva, come è possibile misurare il solo flusso di cassa della gestione reddituale?
I modelli di rendiconto finanziario possono infatti presentare tra di essi differenze significative tali per cui l’informativa sui flussi finanziari che da essi si ricava può risultare non immediatamente comparabile. È rilevante pertanto sottolineare che i modelli di rendiconto finanziario utilizzati per la misurazione dei flussi finanziari della gestione devono indicare sinteticamente la potenza finanziaria della sola gestione reddituale, al fine di valutare la capacità dell’azienda di remunerare i fattori produttivi impiegati con i soli risultati prodotti dal suo core business.
L’attuale aggregato utilizzato per la ricostruzione dei flussi finanziari e l’esposizione nel documento “rendiconto finanziario” secondo il principio contabile OIC 10 è noto come “disponibilità liquide”, definite dal principio contabile intitolato ad esse (OIC 14). Esso è nella sostanza lo stesso aggregato già utilizzato; tuttavia il principio contabile OIC 14 ne definisce in maniera precisa la composizione, ponendo l’attenzione su alcuni punti di interesse tra i quali, ad esempio,
Per l’individuazione dell’aggregato in oggetto sono considerati i depositi bancari e postali, gli assegni, il denaro e altri valori in cassa, comprendendo anche gli stessi aggregati qualora espressi in valuta estera.
L’aggregato “disponibilità liquide” non ricomprende le cambiali attive in portafoglio, i titoli a breve termine nonché i cosiddetti “sospesi di cassa” definiti come “uscite di numerario già avvenute ma che non sono state ancora registrate, in attesa della documentazione necessaria alla loro rilevazione contabile”.
ART. 15 CCI
Il meccanismo di emersione della crisi previsto dall’articolo 15 CCI, interessa il comportamento fiscalmente rilevante dell’impresa. E’ interessante, però, porre una particolare attenzione sulla modalità descritta sul comportamento ai fini IVA dell’impresa per stabilirne lo stato di crisi.
Infatti, la norma prende in considerazione unicamente il debito IVA risultante dalla liquidazione periodica ex art. 21-bis del DL 78/2010 “da versare” (rigo VP14 colonna 1), e non necessaria- mente quello scaduto e non versato.
Infatti, la comunicazione trimestrale non prevede l’indicazione dei versamenti; da ciò ne deriva che se il debitore non ha versato l’IVA nel periodo precedente, il modello non ne tiene praticamente conto perché l’unico rigo che contempla il riporto del debito del periodo precedente è il VP7, dove però può essere indicata una cifra fino a un massimo di € 25,82.
Quindi l’aver individuato la soglia del 30% del volume d’affari del periodo precedente quale valore rilevante ai fini dell’emersione della crisi, rende di fatto impossibile ogni segnalazione per il semplice fatto che l’aliquota ordinaria è del 22% e che quindi il 30% indicato non può mai essere raggiunto.
Praticamente, chiunque può non versare l’IVA perché il sistema non lo individua.
Quale sarà poi il comportamento da utilizzare per quelle imprese che abbiano legittimamente fruito ai fini IVA di una proroga di tre anni dei termini di scadenza degli adempimenti fiscali ricadenti entro un anno dalla data dell’evento lesivo quale può essere la calamità naturali, oppure per aver opposto rifiuto a richieste di natura estorsiva (o non avendovi aderito abbiano subito nel territorio dello Stato un danno a beni mobili o immobili in conseguenza di fatti delittuosi commessi, anche al di fuori di un vincolo associativo, per il perseguimento di un ingiusto profitto)?
Il mancato coordinamento fra il CCI e il nuovo codice antimafia, creerà molteplici criticità di cui al momento non si vede la risoluzione.
Alla luce di quanto sopra esposto, ritiene lo scrivente che non vi sia altra strada se non quello di una illuminazione del Legislatore che apporti al CCI le opportune correzioni.
Per quanto attiene l’articolo 13, stabilire nuovi e più dinamici strumenti, quali a esempio quelli indicato in questo articolo, per la valutazione dello stato endemico dell’impresa.
Per quanto invece riguarda l’articolo 15, si suggerisce la modifica dell’articolo 15 seguendo una delle due strada di seguito indicate:
Con l’applicazione di uno dei due correttivi sopra indicati l’obbligo di segnalazione ex art. 15 CCI diventa uno strumento semplice, oggettivo, incontrovertibile, efficace ed efficiente in termini di restituzione di falsi positivi o negativi e quindi privo quasi del tutto di possibilità di contenzioso.
Si può inoltre ritenere che la segnalazione ex art. 15 CCI diventerebbe simile a quella già esistente di cui all’art 21-bis comma 5 del DL 78/2010, ovvero la “lettera di compliance” che consente anche oggi all’impresa di sanare la sua posizione con lo strumento del ravvedimento operoso ex D. Lgs 472/1997 mediante l’applicazione di sanzioni ridotte rispetto alla previsione di cui all’art. 15 comma 2 ovvero dell’avviso bonario ex art. 3-bis del **D. Lgs 472/1997 mediante l’applicazione di sanzioni ridotte rispetto alla previsione di cui all’art. 15 comma 2 ovvero dell’avviso bonario ex art. 3-bis del D. Lgs 462/1997 dandogli quindi un’opportunità in più.
Si ritiene in ogni caso che, avendo voluto il Legislatore inserire nella norma elementi aziendalistici, una revisione del testo utilizzando gli strumenti più moderni e più idonei delle teorie aziendalistiche sarebbe auspicabile e salvaguarderebbe le imprese dai “falsi positivi” che l’applicazione della norma così come si presenta sicuramente genererà.