1. Il decreto di trasferimento.
  2. L’ordine di cancellazione dei gravami.
  3. I gravami non cancellabili.
  4. La cancellazione dei gravami nella legge fallimentare.
  5. Il decreto di trasferimento ed il rilascio del bene immobile.
  1. Il decreto di trasferimento

Nel sistema processuale civile il decreto di trasferimento di beni immobili è regolamentato dall’art. 586 cpc che è stato parzialmente modificato dalla novella normativa del 2005, con la quale il legislatore ha tramutato in norma quello che la giurisprudenza, consolidatasi negli anni, aveva ormai stabilito in materia di cancellazioni dei gravami. Il legislatore della riforma del processo esecutivo immobiliare ha lasciato, comunque, irrisolte delle situazioni giuridiche che solo le prassi dei Tribunali e degli operatori del settore stanno cercando di risolvere, non solo per portare a conclusione la procedura esecutiva immobiliare, ma anche per rendere accessibili ad un numero sempre più alto di utenti le vendite immobiliari, che, fino a qualche anno fa, non erano pienamente apprezzate dal mercato a discapito sicuramente dei soggetti creditori che agivano nei confronti del debitore per vedersi pagato il loro credito e del debitore stesso che, a seguito della mancata vendita coattiva del proprio immobile, non riusciva, quasi mai, ad onorare i propri debiti.

Il decreto di trasferimento è il provvedimento giudiziale con il quale il Giudice dell’esecuzione trasferisce in favore dell’aggiudicatario la proprietà del bene immobile oggetto di aggiudicazione.

Esso è un atto pubblico in quanto viene emesso dal Giudice dell’esecuzione nell’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali e, per espressa previsione normativa, rimane di esclusiva competenza del Giudice stesso anche se, ai sensi dell’art. 591 bis c.8 cpc, la bozza del decreto deve essere predisposta dal professionista delegato e trasmessa al Giudice non appena viene versato dall’aggiudicatario il saldo prezzo, maggiorato della somma relativa alle imposte di trasferimento.

Il decreto, come previsto dall’art. 586 cpc, viene emesso dal Giudice dell’esecuzione dopo che lo stesso ha accertato l’avvenuto pagamento integrale del saldo prezzo e quando, il Giudice, non ritiene di dover sospendere la vendita nel caso in cui il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto. (Trib. di Palermo ord. del 27.05.2015)

Con il decreto di trasferimento il Giudice trasferisce la proprietà del bene oggetto di aggiudicazione, ordina la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie salvo quelle che si riferiscono alle obbligazioni assunte dall’aggiudicatario ai sensi dell’art. 508 cpc con liberazione del debitore ed, infine, ingiunge al debitore ed a chiunque occupi il bene senza titolo opponibile alla procedura di rilasciare libero da persone e/o cose l’immobile venduto. Tra le finalità del decreto di trasferimento, sicuramente, la principale è quella di trasferire il bene immobile pignorato all’aggiudicatario, tramutando il bene stesso in denaro. (Cass. Sez. 3° ordinanza n. 371 del 11.01.2007)

L’art. 2643 n. 6) cc statuisce che i provvedimenti con i quali nell’esecuzione forzata si trasferisce la proprietà di beni immobili devono essere resi pubblici tramite la trascrizione degli stessi presso la competente Agenzia del Territorio - servizio pubblicità immobiliare. La trascrizione del decreto ha funzione di pubblicità di natura dichiarativa.

  1. L'ordine di cancellazione dei gravami

Per espressa previsione normativa il Giudice, con la pronuncia del decreto, ordina la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e le iscrizioni ipotecarie.

Il dato normativo appare chiaro con le modifiche apportate all’art. 586 cpc. Il legislatore ha dato infatti il potere al Giudice di ordinare la cancellazione dei pignoramenti trascritti e delle ipoteche iscritte anche dopo il pignoramento che ha provocato il processo esecutivo immobiliare. Con questa previsione normativa il legislatore ha voluto rendere facilmente trasferibili gli immobili acquistati dalle procedure esecutive immobiliari, senza lasciarli onerati da gravami che, seppur inefficaci, in quanto iscritti e trascritti dopo il pignoramento, limitavano il trasferimento dei beni immobili, specialmente nel caso in cui il pagamento del corrispettivo di una successiva compravendita degli stessi avveniva mediante la contrazione di un mutuo ipotecario.

Come ogni atto emesso dal Giudice dell’esecuzione dopo che il processo esecutivo è stato incardinato, anche il decreto di trasferimento è soggetto a gravame secondo le previsioni e nelle forme previste dall’art. 617 cpc, entro il termine perentorio di venti giorni da quando l’interessato all’opposizione ne viene a conoscenza. È pacifico che l’opponente deve dimostrare l’interesse, concreto, ad agire individuato dall’art. 100 cpc.

Per procedere alla cancellazione dei gravami, il conservatore dei registri immobiliari necessita del decreto di trasferimento munito della dichiarazione di mancata opposizione, che dovrà apporre il cancelliere sul decreto stesso e, pertanto, sarà necessario notificare il decreto di trasferimento a tutte le parti che nel processo esecutivo potrebbero avere un interesse concreto ad agire, e, in particolare, al debitore esecutato ed ai creditori non intervenuti nel processo esecutivo che sui beni pignorati hanno un diritto di prelazione risultante dai pubblici registri.

  1. I gravami non cancellabili

L’art. 586 cpc permette al Giudice di ordinare la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie ma non dà al Giudice la possibilità di ordinare la cancellazione di eventuali altri gravami trascritti sull’immobile che, spesso, possono emergere da una attenta lettura sia della certificazione ipotecaria, che in alternativa può essere sostituita dalla certificazione redatta da un notaio, allegata all’istanza di vendita sia dalla certificazione ipotecaria che il professionista delegato alla vendita dovrà nuovamente estrarre dal pubblico registro al momento dell’avvenuta aggiudicazione del bene immobile per verificare eventuali nuove trascrizioni e iscrizioni intervenute dopo il pignoramento. In ogni caso il professionista dovrà informare il Giudice della presenza di trascrizioni pregiudizievoli sull’immobile mediante ricorso ai sensi dell’art. 591 ter cpc e, nel caso di prosecuzione del processo esecutivo, dovrà indicare nell’avviso di vendita redatto ai sensi dell’art. 570 cpc la sussistenza di gravami per i quali il Giudice non potrà ordinare la cancellazione.

Può ordinare la cancellazione delle domande giudiziali trascritte ai sensi degli artt. 2652 e 2653 cc solo il Giudice, inteso come Ufficio Giudiziario, competente per l’azione giudiziale e solo se il relativo giudizio è stato definito con sentenza passata in giudicato o se il giudizio è estinto. Nel caso in cui il giudizio, di cui alla domanda giudiziale trascritta, sia ancora pendente, il professionista delegato avrà il compito di verificare il tipo di azione proposta e lo stato effettivo del giudizio. Particolare attenzione dovrà essere prestata all’azione di usucapione che in caso di accoglimento potrebbe addirittura “paralizzare” il processo esecutivo immobiliare anche se trascritta successivamente al pignoramento stante la natura della relativa sentenza che costituisce la proprietà dell’immobile in favore dell’attore sin dal momento in cui è stata accertata la effettiva proprietà in capo all’attore stesso.

Il sequestro conservativo dei beni del debitore chiesto ai sensi dell’art. 2905 cc è opponibile alla procedura esecutiva immobiliare solo se trascritto anteriormente al pignoramento. L’art. 586 cpc non indica tra i gravami per i quali il Giudice dell’esecuzione può ordinare la cancellazione il sequestro conservativo. Può accadere che il sequestro conservativo trascritto sul bene immobile sia quello che poi, convertito in pignoramento, ha provocato il processo esecutivo immobiliare. Partendo da questo assunto si potrebbe desumere che il Giudice possa emettere l’ordine di cancellazione del sequestro conservativo, almeno quello convertito in pignoramento, nel decreto di trasferimento e considerare il “silenzio” dell’art. 586 cpc solo una lacuna colmabile con l’analogia attingendo alle previsioni di cui all’art. 108 lf che prevede che il Giudice delegato ha il potere di ordinare la cancellazione anche dei sequestri conservativi. L’impossibilità per il Giudice dell’esecuzione di ordinare la cancellazione dei sequestri conservativi creerebbe uno iato tra le due procedure espropriative, fallimentare ed esecutiva immobiliare, tale da generare una differente appetibilità degli immobili da parte del mercato.

Le servitù prediali, se trascritte ai sensi dell’art. 2643 c. 1 n.4 prima del pignoramento, sono opponibili allo stesso e non ne può essere ordinata la cancellazione e, pertanto, vengono “trasferite” con l’immobile sul quale gravano. Alcune categorie di servitù sono opponibili al pignoramento anche se trascritte dopo il pignoramento stesso, trattasi delle servitù coattive previste dall’art. 1049 e seguenti cc. Della presenza di tali servitù ne deve essere data adeguata notizia nell’avviso di vendita previsto dall’art. 570 cpc.

Possono gravare sull’immobile esecutato delle convenzioni edilizie e le stesse sono opponibili al pignoramento solo se trascritte antecedentemente allo stesso ai sensi dell’art. 2643 c. 1 n. 2 bis) cc, di tali gravami il Giudice non può ordinarne la cancellazione. I termini delle convenzioni edilizie possono essere ricondotti alla previsione del pagamento degli oneri di urbanizzazione mediante l’impegno dell’impresa costruttrice all’effettuazione di lavori, concordati, in nome e per conto dell’ente pubblico. Solo quando l’impresa costruttrice avrà eseguito completamente i lavori indicati nella convenzione l’ente pubblico dichiarerà l’avvenuto adempimento della convenzione. Nel caso di inadempimento da parte dell’impresa costruttrice l’ente pubblico potrà chiedere ai successivi proprietari degli immobili, divenuti tali anche in forza di decreto di trasferimento, la corresponsione delle somme necessarie per il completo adempimento risultante dall’obbligo assunto dall’impresa costruttrice nella convenzione edilizia. In caso di trascrizione opponibile al pignoramento di una convenzione edilizia, sarà necessario che l’esperto nominato ai sensi dell’art. 568 cpc relazioni in merito all’entità dei lavori ancora ineseguiti con la quantificazione degli stessi e l’imputazione, in quota, all’immobile pignorato.

Il fondo patrimoniale è regolamentato dagli artt. 167 e ss cc, in particolare l’art. 167 cc prevede che, tra gli altri beni, anche i beni immobili possono essere destinati a far fronte dei bisogni della famiglia. L’art. 2647 cc prevede che la costituzione del fondo patrimoniale deve essere trascritta e, pertanto, è proprio la trascrizione precedente al pignoramento che ne provoca l’opponibilità allo stesso. L’esecuzione sui beni del fondo e sui relativi frutti non può avere luogo per debiti contratti per scopi estranei ai bisogni di famiglia. L’esecuzione immobiliare può essere iniziata dal creditore con prelazione iscritta presso i pubblici registri antecedentemente alla trascrizione del fondo patrimoniale.

Il Giudice dell’esecuzione non può ordinare la cancellazione della sentenza di fallimento, neanche se è stata trascritta dopo il pignoramento. L’ordine di cancellazione della sentenza di fallimento potrà essere emesso dal Giudice delegato al fallimento ai sensi dell’art. 108 lf. Il curatore fallimentare ha la facoltà di subentrare nel processo esecutivo immobiliare o di chiedere l’improcedibilità dello stesso al Giudice dell’esecuzione. Il disposto di cui all’art. 107 c. 6 lf fa prevede che il Giudice dell’esecuzione deve dichiarare l’improcedibilità del processo esecutivo su richiesta del curatore fallimentare, che esercita quindi un diritto potestativo, salvo il caso in cui nell’esecuzione non sia stata promossa, o sia intervenuto, un creditore ipotecario con privilegio fondiario.

Particolare attenzione si deve prestare all’effetto dirompente che potrebbe avere, riguardo all’esecuzione immobiliare, il cosiddetto “patto marciano”. L’art. 2 del DL 3 maggio 2016 n. 59, convertito nella L 30 giugno 2016 n. 119, prevede che il contratto di finanziamento concluso tra un imprenditore ed una banca può essere garantito dal trasferimento, in favore dell’istituto bancario, della proprietà di un immobile sospensivamente condizionato all’adempimento del debitore. Il patto trascritto prevale sulle iscrizioni e trascrizioni successive allo stesso. Nel caso in cui il finanziamento sia già garantito da una iscrizione ipotecaria, gli effetti del patto, con lo stesso meccanismo protettivo previsto dalla trascrizione delle domande giudiziali, retroagiscono alla data di iscrizione dell’ipoteca, con il conseguente travolgimento anche del pignoramento immobiliare e, quindi, del processo esecutivo immobiliare, facendo salva solo l’aggiudicazione anche se provvisoria, così come previsto dall’art. 4 DL 3 maggio 2016 n. 59 convertito nella L 30 giugno 2016 n. 119.

  1. La cancellazione dei gravami nella legge fallimentare

L’art. 108 della legge fallimentare statuisce che “Per i beni immobili e gli altri beni iscritti nei pubblici registri, una volta eseguita la vendita e riscosso interamente il prezzo, il giudice delegato ordina, con decreto, la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo.”

Dalla lettura della norma si evince che il Giudice delegato può ordinare la cancellazione dei gravami solo quando la vendita è stata eseguita ed il relativo prezzo è stato interamente riscosso.

Si deduce che la previsione dell’articolo in esame è applicabile solo quando è stata eseguita una vendita competitiva ai sensi dell’art. 107 lf e ciò anche a seguito della collocazione topografica della previsione normativa di cui all’art. 108 lf.

Le previsioni di cui al secondo comma dell’art. 108 lf non possono essere applicate nel caso in cui la vendita venga effettuata a seguito del subentro del curatore in un contratto preliminare di compravendita pendente alla data della sentenza di fallimento. In questa fattispecie, il curatore, prima di subentrare nel contrato preliminare pendente, dovrà concludere con i creditori che vantano una prelazione iscritta sul bene oggetto di contratto preliminare, un accordo, in ipotesi anche economico, volto all’ottenimento dell’assenso della cancellazione delle prelazioni iscritte. La mancanza dell’accordo determinerà per il curatore l’impossibilità di subentro nel preliminare di compravendita pendente alla data della sentenza di fallimento.

La problematica rimane aperta nel caso in cui il contratto preliminare di vendita sia stato trascritto ai sensi dell’art. 2645 bis cc ed ha ad oggetto un immobile ad uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado ovvero un immobile ad uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell’impresa dell’acquirente. Nelle fattispecie appena riportate il curatore deve obbligatoriamente subentrare nel contratto preliminare di compravendita e, pertanto, il promittente acquirente si troverà sull’immobile acquistato iscritte le ipoteche che non potranno essere cancellate in quanto il Giudice delegato è impossibilitato ad emettere il relativo ordine di cancellazione.

Il Giudice delegato al fallimento, a differenza del Giudice dell’esecuzione, può ordinare la cancellazione anche dei sequestri conservativi e di tutti gli altri vincoli che gravano sul bene oggetto di vendita come la sentenza di fallimento e il decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo.

Il curatore fallimentare potrà procedere con la messa in esecuzione dell’ordine di cancellazione quando avverso il decreto del Giudice delegato non sia stato proposto reclamo ai sensi dell’art. 26 lf.

  1. Il decreto di trasferimento ed il rilascio del bene immobile

Il decreto di trasferimento contiene anche l’ingiunzione del Giudice volta al rilascio del bene immobile effettuata nei confronti del debitore e dei terzi che occupano l’immobile stesso senza titolo opponile alla procedura esecutiva immobiliare così come previsto dal comma 2 dell’art. 586 cpc ed inoltre il decreto è anche titolo esecutivo per il rilascio dell’immobile trasferito a favore dell’aggiudicatario.

In questo caso il decreto di trasferimento dovrà essere munito della formula esecutiva, apposta da parte del cancelliere, e messo in esecuzione mediante le formalità previste dall’art. 605 e ss cpc pertanto dovrà essere notificato alla parte che occupa l’immobile mediante il precetto.

La previsione normativa deve essere considerata come l’ultima “spiaggia” concessa all’aggiudicatario, ormai proprietario, dell’immobile che, per una sua scelta, ha rinunciato alla messa in esecuzione, in suo favore, dell’ordine di liberazione di cui il procedimento è regolamentato dall’art. 560 cpc. (Cass. Sez. III° sent. n. 6834/2015)

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Le nuove esecuzioni immobiliari; Manuale dell’esecuzione forzata; Il custode e il delegato alla vendita nella nuova esecuzione immobiliare.

  1. Il caso;
  2. La previsione civilistica;
  3. La giurisprudenza di legittimità;
  4. Conclusioni.
  1. Il caso

Con la sentenza n. 9672/2018 i Giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno, nuovamente, affrontato il complesso rapporto debitorio che intercorre tra società di capitali estinta ed i soci della stessa.

La questione sottoposta ai Giudici di legittimità riguarda una cartella di pagamento emessa dall’Agenzia delle Entrate ai sensi dell’art. 36 bis DPR n. 600/73 nei confronti di una società a responsabilità limitata che è stata cancellata dal Registro delle Imprese dopo l’emissione della sentenza, totalmente favorevole alla società contribuente, della Commissione Tributaria Regionale della Puglia.

L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso alla Suprema Corte di Cassazione notificandolo, stante l’intervenuta cancellazione della società dal registro delle imprese, ai soci ed al liquidatore i quali si sono tutti costituti nel giudizio eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva.

  1. La previsione civilistica

L’art. 2495 cc dispone che dopo la cancellazione della società dal Registro delle Imprese, i creditori sociali che non sono stati soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base alle previsioni del bilancio finale di liquidazione.

La questione relativa alla sussistenza di una responsabilità personale dei soci di società di capitali, in caso di cancellazione della società dal Registro delle Imprese in presenza di debiti sociali, è connessa alla natura dichiarativa o costitutiva della formalità pubblicitaria della cancellazione riguardo al momento in cui può considerarsi effettivamente avvenuta l’estinzione della società.

Prima della riforma del diritto societario del 2003, la giurisprudenza maggioritaria riteneva che la formalità della cancellazione avesse natura meramente dichiarativa ed in quanto tale non fosse condizione sufficiente a determinare l’estinzione della società in caso di sopravvivenze attive o sopravvenienze passive. Secondo tale tesi giurisprudenziale, era la società che doveva essere chiamata a rispondere degli eventuali debiti residui o sopravvenuti, previa revoca della procedura di cancellazione dal Registro delle Imprese, ponendo a base l’assunto che la cancellazione era stata eseguita senza i presupposti di legge.

Con la riforma del diritto societario del 2003 il legislatore, con la modifica dell’art. 2495 cc, ha definitivamente sancito la natura costitutiva della formalità di cancellazione della società dal Registro delle Imprese prevedendo come l’eventuale debito sopravvenuto non possa precludere né impedire l’estinzione della società stessa.

  1. La giurisprudenza di legittimità

La Suprema Corte di Cassazione in passato ha già affrontato la questione della responsabilità dei soci per i crediti sociali non soddisfatti con due sentenze, di fatto, identiche che sono la n. 6070/2013 e la 6072/2013.

In particolare con le due sentenze i Giudici di legittimità hanno sancito:

  1. il creditore, se la società convenuta viene cancellata dal Registro delle Imprese in pendenza di giudizio, non deve iniziare un nuovo giudizio contro i soci che ritenesse responsabili ex art. 2495 cc ma è sufficiente che proceda alla riassunzione di quello proposto nei confronti della società - interrotto - direttamente contro i soci stessi essendo successori naturali della società estinta;
  2. il creditore può avere l’interesse ad agire anche nel caso in cui il socio eccepisca di non aver percepito beni dal riparto finale di liquidazione, perché in caso di sopravvenienze attive della società cessata ne diverrebbe comunque titolare quale successore della società stessa;

È bene precisare che con la sentenza n. 6070/2013 e con la sentenza n. 6072/2013 i Giudici di legittimità hanno affrontato due fattispecie simili ma non identiche da quella affrontata dai Giudici con la sentenza n. 9672/2018 difatti le prime due sentenze hanno delineato la sorte dei residui patrimoniali attivi non liquidati prima della cancellazione della società dal Registro delle Imprese.

Con la sentenza n. 6070/2013 e con la sentenza n. 6072/2013 viene sancito che:

  1. i debiti sociali non ancora soddisfatti si trasferiscono in capo ai soci limitatamente a quanto riscosso a seguito della liquidazione in virtù di una successione dei rapporti tra società – estinta – e i soci che la partecipavano;
  2. le pretese sconosciute/non azionate si intendono rinunciate;
  3. i beni certi e liquidi, anche futuri/non conosciuti, cadranno in contitolarità/comunione indivisa tra i soci;

La sentenza n. 9672/2018 riguarda, invece, il recupero di crediti da parte dell’Erario per mancati versamenti tributari accertati, definitivamente, successivamente alla cancellazione della società dal Registro delle Imprese.

Premesso che i soci si sono difesi opponendo l’assenza di qualsivoglia riparto finale in loro favore, i Giudici precisano che tale circostanza non è idonea ad impedire l’azione del creditore giacché la ratio dell’art. 2495 cc è quello di evitare l’espropriazione del diritto del creditore da parte della società debitrice chiudendo la liquidazione e cercando di “azzerare” i debiti.

Ecco che dirimente appare proprio il concetto espresso dai Giudici di legittimità: “il creditore mantiene comunque - sempre processualmente parlando - l’interesse ad agire perché interesse dinamico e non limitato dall’effettivo riparto che può essere avvenuto o meno.”

Ed infatti nella sentenza 9672/2018 si legge che “come condivisibilmente osservato nei citati precedenti, poi, la circostanza che i soci abbiano goduto o meno di un qualche riparto, non è dirimente neppure ai fini dell’interesse ad agire del Fisco creditore. Le Sezioni Unite, invero, hanno riconosciuto che la circostanza si potrebbe riflettere sul requisito dell’interesse ad agire, ma hanno ammonito che il creditore potrebbe avere comunque interesse all’accertamento del proprio diritto. Si può porre il caso, che le stesse Sezioni Unite hanno esaminato, di diritti e beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, i quali pur sempre si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con la sola esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo (v., al riguardo, Cass. 19 ottobre 2016, n. 21105, che ha riconosciuto l’interesse ad agire del creditore che abbia esperito azione revocatoria ove la società debitrice alienante si sia estinta per cancellazione dal registro delle imprese). La possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio non consentono, dunque, di escludere l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti. E l’esistenza di questi beni o crediti comporta, come pure rilevato dalle Sezioni Unite, che tra i soci medesimi s’instauri "un regime di contitolarità o di comunione indivisa".

  1. Conclusioni

Si può concludere affermando che la responsabilità del socio verso i creditori, dunque, sorge per il semplice fatto della esistenza di creditori che non hanno potuto concorrere alla liquidazione del patrimonio sociale sino a loro soddisfazione e ciò a prescindere da qualsiasi limitazione “quantitativa” di tale responsabilità. Inoltre, l’interesse ad agire dei creditori deve intendersi in senso dinamico ed, in quanto tale, deve ritenersi generalmente sussistente.

Se tali principi erano già stati enunciati, in ambito civilistico, dalle Sezioni Unite con le summenzionate sentenze nn. 6070 e 6072 del 12 marzo 2013, con la sentenza n. 9672/18 la Corte di Cassazione ne afferma e conferma l’applicazione anche in ambito tributario ossia nel caso in cui il creditore insoddisfatto sia l’Erario.

Anzi, in questo specifico caso, seppur in forma dubitativa, i Giudici di legittimità paiono accordare al creditore una tutela ancor più rafforzata infatti facendo riferimento alle peculiarità del processo tributario la Suprema Corte mette in discussione che la stessa eccezione di “difetto di responsabilità” per mancato ricevimento di somme in sede di distribuzione possa essere introdotta in tale sede.

La Corte prende in considerazione, innanzitutto, le caratteristiche formali ed amministrative dell’atto impositivo, che presuppone in ogni caso una iscrizione a ruolo nei confronti del socio quale successore della società per somme già accertate nei confronti di quest’ultima. In secondo luogo, ricorda il principio di impugnabilità degli atti tributari per vizi propri (art. 19, comma 3, del D.Lgs. n. 546/1992) e il divieto di ampliamento dell’oggetto del giudizio (limitato alla sola verifica della fondatezza della pretesa tributaria), elementi tutti che, a mente della Corte, metterebbero in serio dubbio la stessa possibilità di dedurre l’eccezione in oggetto in seno al processo tributario.

  1. Introduzione

Il nuovo Codice della Crisi e dell’Insolvenza riporta all’articolo 2, comma 1 lettere a), b) e c) le definizioni di crisi, insolvenza e sovraindebitamento. Nella lettera della norma, le descrizioni fatte dal Legislatore assumono un’elevata caratteristica letteraria.

Per la prima volta nel nostro ordinamento giuridico il Legislatore ha voluto descrivere una situazione economica in maniera indefinita e non priva di incertezza, con una modalità che si discosta notevolmente dalla definizione basata su rigidi e ineludibili parametri numerici quale è l’attuale formulazione dell’articolo 1 della Legge Fallimentare del 1942.

La volontà del Legislatore, quindi, si basa chiaramente sulla necessità di regolamentare una realtà economica dell’impresa che non ha più caratteristiche e definizioni unitarie, ma che si mostra con poliedriche facce difficilmente codificabili e parametrabili; e lo dimostra dandone una illustrazione fluida ed elastica, che ben dovrebbe consentire di descrivere il momento di una realtà viva e in divenire qual è l’impresa.

Stupisce quindi quando si verifica che la portata dell’articolo 2 CCI si scontra con il dettame degli articoli 12, 13 e 15 del CCI i quali intenderebbero, nel momento in cui tale crisi emerge nella realtà aziendale, restituire alla suddetta normativa una rigidità di parametri e di risultati numerici che l’articolo 2 del CCI non prevede.

Lo scopo del presente studio è quindi quello di cercare di delineare e concretizzare la definizione di crisi d’impresa e del momento dell’allerta; cioè il momento nel quale tale crisi emerge, con variabili verificabili sia dall’interno che dall’esterno del sistema, verificando poi quali siano gli strumenti migliori per l’emersione.

Darne quindi un approccio aziendalistico reale e realizzabile sia dall’imprenditore dell’impresa fallibile, ma non grande, quanto dagli organi di controllo delle società dimensionalmente maggiori; sia ai fini dell’emersione della crisi e quindi dello stato di allerta, sia per dotarsi dei necessari strumenti per il superamento del momento di difficoltà. Superare gli errori dell’articolo 15, 1 e 2 comma CCI, utilizzando a tal fine le moderne metodologie della pratica aziendalistica.

Il lavoro è strutturato come segue: nell’ambito dell’analisi per indici, il lavoro ne illustra i limiti; nell’ambito dell’analisi per flussi viene indicata in maniera breve una metodologia di applicazione con il rendiconto finanziario, del quale esistono modelli diversi di rappresentazione dei flussi in base alla definizione di flussi finanziari.

  1. Legal review

Gli articoli del CCI a cui il presente lavoro fa riferimento sono:

Art. 2 Definizioni

  1. Ai fini del presente codice si intende per:
  1. crisi”: lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate;
  2. insolvenza”: lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni;
  3. sovraindebitamento”: lo stato di crisi o di insolvenza del consumatore, del professionista, dell’imprenditore minore, dell’imprenditore agricolo, delle start-up innovative di cui al decreto legge n.179 del 18 ottobre 2012 e di ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale ovvero a liquidazione coatta amministrativa o ad altre procedure liquidatorie previste dal codice civile o da leggi speciali per il caso di crisi o insolvenza…

CAPO I STRUMENTI DI ALLERTA

Art. 12

Nozione, effetti e ambito di applicazione

  1. Costituiscono strumenti di allerta gli obblighi oneri di segnalazione posti a carico dei soggetti di cui agli articoli 14 e 15, finalizzati, unitamente agli obblighi organizzativi posti a carico dell’imprenditore dal codice civile, alla tempestiva rilevazione degli indizi di crisi dell’impresa ed alla sollecita adozione delle misure più idonee alla sua composizione.
  2. Il debitore, all’esito dell’allerta o anche prima della sua attivazione, può accedere al procedimento di composizione assistita della crisi, che si svolge in modo riservato e confidenziale dinanzi all’OCRI.
  3. L’attivazione della procedura di allerta da parte dei soggetti di cui agli articoli 14 e 15, nonché la presentazione da parte del debitore dell’istanza di composizione assistita della crisi di cui all’articolo 16, comma 1, non costituiscono causa di risoluzione dei contratti pendenti, anche se stipulati con pubbliche amministrazioni, né di revoca degli affidamenti bancari concessi. Sono inefficaci nulli i patti contrari.
  4. Gli strumenti di allerta si applicano ai debitori che svolgono attività imprenditoriale, esclusi le grandi imprese, i gruppi di imprese di rilevante dimensione e le società con azioni quotate in mercati regolamentati, o diffuse fra il pubblico in misura rilevante secondo i criteri stabiliti dal Regolamento della Consob concernente la disciplina degli emittenti. Tali imprese escluse sono comunque ammesse a godere delle misure premiali previste dall’articolo 25, se ricorrono le condizioni di tempestività previste dall’articolo 24.
  5. Gli strumenti di allerta si applicano anche alle imprese agricole e alle imprese minori, compatibilmente con la loro struttura organizzativa, ferma la competenza dell’OCC per la gestione della fase successiva alla segnalazione dei soggetti di cui agli articoli 14 e 15 ovvero alla istanza del debitore di composizione assistita della crisi.
  6. Per le imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa ordinaria ai sensi del capo IV del titolo VII, il procedimento di allerta e di composizione assistita della crisi è integrato ai sensi dell’articolo 316, comma 1, lettere a) e b).
  7. La pendenza di una delle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza disciplinate dal presente codice fa cessare gli obblighi di segnalazione di cui gli articoli 14 e 15 e, se sopravvenuta, comporta la chiusura del procedimento di allerta e di composizione assistita della crisi.

Art. 13 Indicatori della crisi

  1. Costituiscono indicatori di crisi gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e dell’attività imprenditoriale svolta dal debitore, tenuto conto della data di costituzione e di inizio dell’attività, rilevabili attraverso appositi indici che diano evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e delle prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso o, quando la durata residua dell’esercizio al momento della valutazione è inferiore a sei mesi, per i sei mesi successivi. Sono indicatori significativi, a questi fini, il rapporto tra flusso di cassa e attivo, tra patrimonio netto e passivo, tra oneri finanziari e ricavi. Costituiscono altresì indicatori di crisi ritardi nei pagamenti reiterati e significativi, anche sulla base di quanto previsto nell’articolo 24.
  2. Il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili, tenuto conto delle migliori prassi nazionali ed internazionali, elabora con cadenza almeno triennale, in riferimento ad ogni tipologia di attività economica secondo le classificazioni I.S.T.A.T., gli indici di cui al comma 1 che, valutati unitariamente, fanno ragionevolmente presumere la sussistenza di uno stato di crisi dell’impresa. Il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili elabora indici specifici con riferimento alle start-up innovative di cui al decreto-legge 18 ottobre 2012, n.179, convertito dalla legge 17 dicembre 2012, n.221, alle PMI innovative di cui al decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2015, n. 33, alle società in liquidazione, alle imprese costituite da meno di due anni. Gli indici elaborati sono approvati con decreto del Ministero dello Sviluppo economico.
  3. L’impresa che non ritenga adeguati, in considerazione delle proprie caratteristiche, gli indici elaborati a norma del comma 2 ne specifica le ragioni nella nota integrativa al bilancio di esercizio e indica, nella medesima nota, gli indici idonei a far ragionevolmente presumere la sussistenza del suo stato di crisi. Un professionista indipendente attesta l’adeguatezza di tali indici in rapporto alla specificità dell’impresa. L’attestazione è allegata alla nota integrativa al bilancio di esercizio e ne costituisce parte integrante. La dichiarazione, attestata in conformità al secondo periodo, produce effetti per l’esercizio successivo.

Art. 15

Obbligo di segnalazione di creditori pubblici qualificati

Comma 1 e 2

  1. L’Agenzia delle entrate, l’Istituto nazionale della previdenza sociale e l’agente della riscossione delle imposte hanno l’obbligo, per i primi due soggetti a pena di inefficacia del titolo di prelazione spettante sui crediti dei quali sono titolari, per il terzo a pena di inopponibilità del credito per spese ed oneri di riscossione, di dare avviso al debitore, all’indirizzo di posta elettronica certificata di cui siano in possesso, o, in mancanza, a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento inviata all’indirizzo risultante dall’anagrafe tributaria, che la sua esposizione debitoria ha superato l’importo rilevante di cui al comma 2 e che, se entro novanta giorni dalla ricezione dell’avviso egli non avrà estinto o altrimenti regolarizzato per intero il proprio debito con le modalità previste dalla legge o se, per l’Agenzia delle entrate, non risulterà in regola con il pagamento rateale del debito previsto dall’articolo 3-bis del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n.462 o non avrà presentato istanza di composizione assistita della crisi o domanda per l’accesso ad una procedura di regolazione della crisi e dell’insolvenza, essi ne faranno segnalazione all’OCRI, anche per la segnalazione agli organi di controllo della società.
  2. Ai fini del comma 1, l’esposizione debitoria è di importo rilevante:
  1. per l’Agenzia delle entrate, quando l’ammontare totale del debito scaduto e non versato per l’imposta sul valore aggiunto, risultante dalla comunicazione della liquidazione periodica di cui all’articolo 21-bis del decreto-legge 31 maggio 2010, n.78, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2010, n. 122, sia pari ad almeno il 30 per cento dei volume d’affari del medesimo periodo e non inferiore a euro 25.000 per volume d’affari risultante dalla dichiarazione modello IVA relativa all’anno precedente fino a 2.000.000 di euro, non inferiore a euro 50.000 per volume d’affari risultante dalla dichiarazione modello IVA relativa all’anno precedente fino a 10.000.000 di euro, non inferiore a euro 100.000, per volume d’affari risultante dalla dichiarazione modello IVA relativa all’anno precedente oltre 10.000.000 di euro;
  2. per l’Istituto nazionale della previdenza sociale, quando il debitore è in ritardo di oltre sei mesi nel versamento di contributi previdenziali di ammontare superiore alla metà di quelli dovuti nell’anno precedente e superiore alla soglia di euro 50.000;
  3. per l’agente della riscossione, quando la sommatoria dei crediti affidati per la riscossione dopo la data di entrata in vigore del presente codice, autodichiarati o definitivamente accertati e scaduti da oltre novanta giorni superi, per le imprese individuali, la soglia di euro 500.000 e, per le imprese collettive, la soglia di euro 1.000.000.
  1. - Risultati e discussione. Brevi appunti.

Definizione del concetto di crisi.

Negli articoli del CCI sopra indicati, emerge una realtà giuridica facilmente rappresentabile: da un lato l’impresa, descritta quale sistema di valori in evoluzione non codificabile entro leggi rigide e parametrate; dall’altro la stessa realtà analizzata e giudicata in base a criteri aziendalistici e giuridici che non possono assolutamente portare ai risultati previsti e richiesti dalla norma.

Per definire cosa è la crisi bisogna pensare che, essendo lo scopo dell’impresa accrescere il valore del capitale economico, non solo un andamento negativo del valore, derivabile sia dall’incapacità di realizzare i flussi di reddito o di cassa attesi sia dall’aggravamento del livello di rischio delle strategie aziendali è configurabile come crisi, ma anche una situazione di staticità o diminuzione del valore è interpretabile come segnale di potenziali squilibri. Ne consegue quindi che, quando la perdita di flussi risulti “sistematica e irreversibile senza interventi risanatori o di ristrutturazione” si può parlare di crisi dell’economicità dell’impresa che si traduce quasi sempre in gravi carenze sul piano finanziario: crisi di liquidità, difficoltà nell’accesso al credito e perdita di fiducia degli stakeholders aziendali. Quando la crisi raggiunge il suo massimo livello, allora si comincia a parlare di insolvenza, che rappresenta una condizione permanente di squilibrio patrimoniale, irrimediabile senza l’assenso dei finanziatori a rinunciare alla riscossione immediata dei crediti loro spettanti.

Possono essere identificate cinque grandi macroclassi di cause dalle quali può originarsi lo stato di declino e/o crisi:

  1. declino e crisi da inefficienza;
  2. declino e crisi da sovracapacità/rigidità;
  3. declino e crisi da decadimento dei prodotti e da carenze ed errori di marketing;
  4. crisi da incapacità a programmare, da errori di strategia e da carenza di innovazione;
  5. crisi da squilibrio finanziario.
  1. Inefficienza. Nell’area della produzione l’inefficienza può essere ricondotta, per esempio, alla disponibilità di strumenti totalmente o parzialmente obsoleti, alla mancanza di competenza o di impegno della manodopera, all’utilizzo di tecnologie superate o a un’allocazione non ottimale degli impianti; nell’area commerciale può essere causata da una sproporzione tra i costi di marketing e i costi sostenuti per la creazione e la gestione delle reti di vendita, da un lato, e i risultati che ne sono derivati, dall’altro; nell’area amministrativa se si registrano eccessi di burocratizzazione, gravi carenze nel sistema informativo oppure un’operatività insoddisfacente in uno o più settori dell’attività amministrativa; nell’ambito organizzativo, per assenza degli strumenti tipici di programmazione e controllo e di quelli di pianificazione a medio lungo termine, a un’opacità nella definizione dei compiti e delle responsabilità, a un’erronea determinazione dei risultati conseguiti da singoli gruppi, a un collegamento inidoneo tra risultati e compensi oppure a disfunzioni nell’organizzazione del lavoro produttivo, degli uffici, della manutenzione, degli impianti, degli acquisti o, addirittura, del disegno organizzativo globale dell’azienda; nell’ambito dell’attività finanziaria le inefficienze si manifestano sotto forma di un più alto costo delle risorse raccolte in virtù di una debolezza contrattuale dell’azienda o dell’incapacità degli addetti alla funzione finanziaria.
  2. Sovracapacità. Di fatto è un eccesso di capacità produttiva rispetto alle possibilità di collocamento sul mercato.
  3. Errori di marketing. In genere si traducono in un mix di prodotti errato non in grado di soddisfare le esigenze della clientela target; o in una caduta dell’immagine o della marca dell’impresa; o in una scarsa conoscenza del nome del produttore, delle marche e dei prodotti; o in errori nella scelta dei mercati, del target di clientela o delle nicchie, nello scadimento dei servizi offerti alla clientela; o in carenze ed eccessiva onerosità dell’apparato distributivo.
  4. Errori di strategia. Incapacità di sviluppare nuove idee; mancanza di abilità nell’adattare le condizioni della gestione alle variazioni dell’ambiente esterno; difficoltà a predisporre budget e programmi a lungo termine individuando con precisione gli obiettivi da aggiungere. Di fatto, gli errori nella strategia che possono originare una distruzione di valore sono molteplici e tra questi si possono ricordare: l’insistere in attività che generano risultati negativi e che non presentano possibilità di inversione di tendenza; l’entrata in nuove aree lontane dal proprio core business e delle quali l’azienda non possiede le competenze basilari per poter sostenere lo scontro competitivo; l’avvio di fasi di sviluppo eccessivamente veloci, pur non possedendo adeguate disponibilità finanziarie e manageriali; il tentativo di conquista di nuovi mercati sopportando ingenti perdite di partenza; la dispersione di risorse in progetti di ricerca che non producono risultati apprezzabili; il perseguimento di obiettivi non realistici.
  5. Squilibrio finanziario. Identificabile in una grave carenza di mezzi propri, in una marcata prevalenza dei debiti a breve termine rispetto ai debiti a medio/lungo termine, in una mancata correlazione tra investimenti duraturi e finanziamenti stabili, in limitate o nulle riserve di liquidità, in scarsa capacità di contrattare le condizioni del credito e, nei casi più gravi, in difficoltà nel rispettare i pagamenti alle scadenze definite.

La percezione immediata dei sintomi indicatori di uno stato di distruzione del valore è fondamentale per aumentare le probabilità di conservazione dell’impresa in funzionamento; è chiaro quindi che l’allerta, così come disegnata dalle prime bozze della riforma, avrebbe dovuto essere lo stadio nel quale veniva fornito all’imprenditore o all’organo amministrativo lo strumento per questa immediata percezione. Ma ciò che si legge nell’attuale previsione normativa, non soddisfa affatto la possibilità di creare all’interno dell’impresa quella percezione sopra indicata.

ART. 13 CCI – Strumenti per la verifica dell’esistenza della crisi

Nell’articolo 13 del CCI, gli strumenti indicati per tale verifica, sono indici.

L’indice è un elemento di analisi, ormai per unanime dottrina, che può dare unicamente risultati statici, incapaci quindi di verificare una realtà fluida quale è quella dell’impresa, quantomeno nell’analisi della sostenibilità dei debiti e della continuazione dell’attività nei sei mesi successivi come previsto dalla norma.

Solo in teoria l’analisi per indici potrebbe dare delle indicazioni o delle tendenze, perché in realtà si tratta, come già detto, di un’analisi statica mentre la gestione è tipicamente caratterizzata dal requisito della dinamicità.

L‘analisi del bilancio d’esercizio condotta per indici è, tra gli strumenti disponibili, quella di cui più spesso viene messa in discussione l’utilità in ragione del fatto che i dati contabili sui quali sono costruiti gli indici risentono di un ineliminabile livello di astrazione e di ipotesi formulate dagli amministratori che redigono il bilancio, tale da renderlo scarsamente rappresentativo della realtà nonostante il rigoroso dettato normativo che guida la sua redazione. Tuttavia, se da una parte è vero che l’affidabilità di un bilancio è legata all’attendibilità dei dati contabili sui quali è costruito, è utile tenere presente che i risultati che emergono dall’analisi per indici condotta sui bilanci delle aziende non offrono un giudizio unico ed inequivocabile: esso è infatti sempre legato alla capacità interpretativa dell’analista, sia esso interno che esterno, questa dipendendo dal grado di esperienza e dalla conoscenza delle motivazioni e delle ipotesi che hanno guidato gli amministratori nella redazione del bilancio.

Lo scrivente, quindi, si permette di indicare quale strumento più idoneo un’indagine per flussi, che potrebbe generare un’attendibile verifica dell’allerta in merito alla continuità aziendale; ma l’analisi per flussi assume un significato aziendalistico se effettuata non a posteriori su dati storici, ma bensì in un sistema organizzato dato da un insieme di piani a lungo termine, budget esplicativi di quei piani, strumenti per la verifica a posteriore degli scostamenti, analisi degli scostamenti, ricerca della soluzione per annullare gli scostamenti. E ciò perché il fenomeno della crisi d’impresa si configura come un fenomeno di natura sistemica, che interessa l’impresa nella sua interezza e si materializza in un processo degenerativo autoalimentantesi che solo un processo di segno opposto può rimediare e annullare.

L’adozione di metodologie basate sui flussi si confà meglio alle situazioni di continuità poiché prevede nelle sue metodologie l’analisi di singoli asset espressi al valore d’uso. Occorre far presente come, allorquando il processo di risoluzione della crisi sia stato avviato e/o portato a compimento anche solo con la riduzione dell’indebitamento e/o la ridefinizione delle scadenze di rimborso dello stesso, si venga inevitabilmente a creare una discontinuità tra l’andamento dei flussi storici e di quelli prospettici e questa discontinuità è quello scostamento il cui studio realizza risultati nell’impresa. Un ulteriore elemento da considerare nella stima dei flussi attesi, distinti per singolo periodo, attiene all’effettiva coerenza tra flussi in entrata e flussi in uscita.

Il presupposto dell’analisi attraverso la quantificazione dei valori dell’impresa risiede nella possibilità di combinare sinergicamente le risorse esistenti con nuove prospettive gestionali, al fine di avviare un processo virtuoso.

E’ importante, quindi, codificare la metodologia per la valorizzazione delle risorse, secondo il seguente schema: valore per il mercato (vitale per i clienti e per il mercato); grado di unicità; durevolezza; estensibilità (opzioni reali).

La comprensione del contesto valutativo si raggiunge tramite l’acquisizione della base informativa, la quale comprende un’analisi strategica concernente il quadro macroeconomico, quello settoriale e quello specifico dell’unità oggetto di stima, un’analisi quantitativa dei risultati storici e poi delle previsioni sia degli scenari futuri sempre relativi ai tre quadri, sia dei flussi economici e finanziari della medesima unità.

E’ importante quindi analizzare l’impresa secondo tre contesti valutativi: se l’impresa è in tensione finanziaria (con o senza equilibrio economico); se l’impresa è in disequilibrio economico e in crisi reversibile; se l’impresa è in disequilibrio economico e in crisi irreversibile. La varietà di indicatori o leve impiegabili per definire lo stato in cui l’azienda versa, e soprattutto le possibili strade di uscita dallo stesso, comporta che i confini di ciascun contesto valutativo non possano essere tracciati in modo oggettivo, nonostante il ricorso alle grandezze economico-finanziarie. Il passaggio di un’azienda da un contesto all’altro può essere lento o repentino a seguito di un evento significativo sulla dinamica dei flussi e sui conseguenti equilibri di bilancio.

L’obiettivo è individuare le condizioni di applicabilità e i criteri, in relazione ai quali scegliere il metodo più corretto per procedere alla valutazione di un’azienda per verificarne l’eventuale stato di crisi.

In definitiva si può quindi dire che una prima analisi dinamica dell’impresa necessiti dei seguenti criteri di valutazione:

  1. valutazioni di tipo patrimoniale.

La formulazione del metodo patrimoniale semplice è la seguente:

Ve = K0 = C + [ΣP – ΣM] (1- t)

dove:

Ve è il valore del capitale economico,

K0 è il capitale netto rettificato a valori correnti, C è il capitale netto contabile,

P sono le plusvalenze originate dagli elementi patrimoniali, M sono le minusvalenze originate dagli elementi patrimoniali

t è l’aliquota fiscale potenziale da applicarsi al saldo (se positivo) fra plusvalenze e minusvalenze.

La formulazione del metodo Patrimoniale Complesso è la seguente:

Ve = K’0 + BI (1-t)

dove:

K’0 è il patrimonio netto rettificato con esclusione dei beni immateriali, BI sono i beni immateriali.

  1. valutazioni reddituali. I metodi reddituali si basano sull’assunto che la capacità reddituale è la grandezza che meglio descrive il valore aggregato dell’azienda, nella prospettiva che il valore dell’azienda si identifichi con la sommatoria dei flussi economici ottenibili a cui si aggiunga, laddove l’orizzonte temporale sia limitato, il valore finale. Ai fini di una maggiore significatività della stima, è opportuno tenere conto dei risultati economici attraverso il ricorso a verifiche reddituali, effettuabili individuando non solo le attività e le passività, ma anche prodotti, tecnologie, mercati e clientela.
  2. valutazioni che esplicitano la creazione di valore.
  3. valutazioni di tipo finanziario.
  4. valutazioni comparative di mercato.

E’ chiaro che questo tipo di valutazioni non sono riconducibili al dettame di cui all’articolo 13 CCI; ne consegue che un’analisi fatta secondo le indicazioni del codice potrebbe portare alla creazioni di imprese false positive rispetto alla verifica di uno stato di crisi. E che le imprese che, non rientrando nella casistica di cui alla definizione di sovraindebitamento, volessero dotarsi degli strumenti corretti, come sopra indicati, avrebbero la necessità di affrontare grossi investimenti che potrebbero mettere a rischio il loro equilibrio economico e finanziario.

Analogamente, le voci di Stato patrimoniale iscritte nel Passivo (o Fonti di Finanziamento o Struttura Finanziaria) devono essere riclassificate in base alla natura dei finanziatori, ossia in relazione al fatto che esse siano apportate da Soci o da Possessori di quote del capitale sociale o da Finanziatori terzi esterni, distinguendo tra Finanziatori in Capitale di Rischio e Finanziatori in Capitale di Credito. Le fonti di finanziamento sono ulteriormente riclassificate in base alla loro durata, ossia in relazione al tempo di rimborso, individuato nel parametro temporale dell’esercizio.

Distingueremo quindi le Fonti finanziarie del capitale permanente (o Capitale proprio o Patrimonio Netto o Finanziamenti a lungo termine erogati a favore dell’azienda sotto forma di indebitamento o passività consolidate) dalle Fonti finanziarie a breve termine o passivo corrente.

Il documento per la ricostruzione dei flussi finanziari della gestione è il principio contabile “OIC 10, Rendiconto finanziario”, documento peraltro reso obbligatorio dall’articolo 2423, comma 1, del codice civile, il cui scopo è quello di definire i criteri per la redazione e presentazione dei flussi finanziari generati e/o assorbiti dalla gestione complessivamente considerata ricostruendo le cause di variazione delle disponibilità liquide nell’esercizio al fine di valutare la situazione finanziaria della società, o del gruppo di imprese, e la sua evoluzione nel tempo. Il rendiconto finanziario fornisce inoltre altre informazioni sulle disponibilità liquide prodotte/assorbite dall’attività operativa e modalità di impiego/copertura, sulla capacità di far fronte agli impegni finanziari a breve termine, sulla capacità di autofinanziamento.

Per la redazione del rendiconto finanziario viene quindi calcolato il flusso finanziario determinabile con due metodi: il metodo diretto e il metodo indiretto.

Nel metodo indiretto il Flusso finanziario della gestione reddituale viene ricavato partendo dal risultato economico dell’esercizio ed effettuando le rettifiche relative alle seguenti voci: operazioni che non hanno determinato variazioni monetarie e componenti di reddito associati ai flussi derivanti dalle attività di investimento e di finanziamento. Si tratta quindi di una riconciliazione tra il reddito economico, calcolato sulla base del principio di competenza e il flusso di cassa monetario generato dalla gestione corrente.

Nel metodo diretto, che è quello più semplice da un punto di vista concettuale e più efficace da un punto di vista espositivo, vengono fornite informazioni che possono essere utili nella stima dei futuri flussi finanziari che non sono disponibili con il metodo indiretto, e sono altresì oggetto di analisi:

Nel Rendiconto Finanziario, quindi, le variazioni sono rappresentate dai flussi finanziari le cui variabili sono date da aumenti e diminuzioni derivanti dall’attività operativa, dall’attività di investimento e dall’attività di finanziamento; e l’attività operativa è data dalle operazioni connesse all’acquisizione, produzione e distribuzione di beni e alla fornitura di servizi, anche se riferibili a gestioni accessorie; l’attività di investimento è data dalle operazioni di acquisto e di vendita delle immobilizzazioni materiali, immateriali e finanziarie e delle attività finanziarie non immobilizzate; e l’attività di finanziamento è data dalle operazioni di ottenimento e di restituzione delle disponibilità liquide sotto forma di capitale di rischio o di capitale di debito.

L’attuale versione del principio contabile che norma la costruzione del rendiconto finanziario indica esplicitamente un preciso aggregato contabile di riferimento, ovvero le disponibilità liquide. Il nuovo principio contabile raccomanda l’utilizzo di questo unico aggregato e, pertanto, anche l’adozione di un unico modello di rendiconto atto a rappresentare i flussi finanziari generati e/o assorbiti dalla gestione: il rendiconto finanziario delle disponibilità liquide costruito sulla base di quello adottato nella prassi internazionale al fine di favorire la comparabilità nel tempo e nello spazio tra bilanci aziendali, o tra gruppi di imprese.

Le diverse definizioni e configurazioni del flusso di cassa fanno emergere un ulteriore interrogativo: posto che il flusso di cassa di periodo si intende in termini di gestione complessiva, come è possibile misurare il solo flusso di cassa della gestione reddituale?

I modelli di rendiconto finanziario possono infatti presentare tra di essi differenze significative tali per cui l’informativa sui flussi finanziari che da essi si ricava può risultare non immediatamente comparabile. È rilevante pertanto sottolineare che i modelli di rendiconto finanziario utilizzati per la misurazione dei flussi finanziari della gestione devono indicare sinteticamente la potenza finanziaria della sola gestione reddituale, al fine di valutare la capacità dell’azienda di remunerare i fattori produttivi impiegati con i soli risultati prodotti dal suo core business.

L’attuale aggregato utilizzato per la ricostruzione dei flussi finanziari e l’esposizione nel documento “rendiconto finanziario” secondo il principio contabile OIC 10 è noto come “disponibilità liquide”, definite dal principio contabile intitolato ad esse (OIC 14). Esso è nella sostanza lo stesso aggregato già utilizzato; tuttavia il principio contabile OIC 14 ne definisce in maniera precisa la composizione, ponendo l’attenzione su alcuni punti di interesse tra i quali, ad esempio,

Per l’individuazione dell’aggregato in oggetto sono considerati i depositi bancari e postali, gli assegni, il denaro e altri valori in cassa, comprendendo anche gli stessi aggregati qualora espressi in valuta estera.

L’aggregato “disponibilità liquide” non ricomprende le cambiali attive in portafoglio, i titoli a breve termine nonché i cosiddetti “sospesi di cassa” definiti come “uscite di numerario già avvenute ma che non sono state ancora registrate, in attesa della documentazione necessaria alla loro rilevazione contabile”.

ART. 15 CCI

Il meccanismo di emersione della crisi previsto dall’articolo 15 CCI, interessa il comportamento fiscalmente rilevante dell’impresa. E’ interessante, però, porre una particolare attenzione sulla modalità descritta sul comportamento ai fini IVA dell’impresa per stabilirne lo stato di crisi.

Infatti, la norma prende in considerazione unicamente il debito IVA risultante dalla liquidazione periodica ex art. 21-bis del DL 78/2010 “da versare” (rigo VP14 colonna 1), e non necessaria- mente quello scaduto e non versato.

Infatti, la comunicazione trimestrale non prevede l’indicazione dei versamenti; da ciò ne deriva che se il debitore non ha versato l’IVA nel periodo precedente, il modello non ne tiene praticamente conto perché l’unico rigo che contempla il riporto del debito del periodo precedente è il VP7, dove però può essere indicata una cifra fino a un massimo di € 25,82.

Quindi l’aver individuato la soglia del 30% del volume d’affari del periodo precedente quale valore rilevante ai fini dell’emersione della crisi, rende di fatto impossibile ogni segnalazione per il semplice fatto che l’aliquota ordinaria è del 22% e che quindi il 30% indicato non può mai essere raggiunto.

Praticamente, chiunque può non versare l’IVA perché il sistema non lo individua.

Quale sarà poi il comportamento da utilizzare per quelle imprese che abbiano legittimamente fruito ai fini IVA di una proroga di tre anni dei termini di scadenza degli adempimenti fiscali ricadenti entro un anno dalla data dell’evento lesivo quale può essere la calamità naturali, oppure per aver opposto rifiuto a richieste di natura estorsiva (o non avendovi aderito abbiano subito nel territorio dello Stato un danno a beni mobili o immobili in conseguenza di fatti delittuosi commessi, anche al di fuori di un vincolo associativo, per il perseguimento di un ingiusto profitto)?

Il mancato coordinamento fra il CCI e il nuovo codice antimafia, creerà molteplici criticità di cui al momento non si vede la risoluzione.

  1. - Conclusioni

Alla luce di quanto sopra esposto, ritiene lo scrivente che non vi sia altra strada se non quello di una illuminazione del Legislatore che apporti al CCI le opportune correzioni.

Per quanto attiene l’articolo 13, stabilire nuovi e più dinamici strumenti, quali a esempio quelli indicato in questo articolo, per la valutazione dello stato endemico dell’impresa.

Per quanto invece riguarda l’articolo 15, si suggerisce la modifica dell’articolo 15 seguendo una delle due strada di seguito indicate:

  1. cambiare il modello della comunicazione periodica ex art. 21-bis del DL 78/2010 al fine di inserire anche il dato dell’imposta non pagata ampliando la portata del rigo VP7 come tempi ed importo; introdurre nel predetto modello un rigo che evidenzi gli importi scaduti non versati ma oggetto di regolarizzazione in corso (oggi limitato ad € 25,82) armonizzando il modello con tutte le esigenze e le eccezioni che la normativa fiscale prevede.
  2. introdurre regole analoghe a quelle previste per l’esposizione verso l’INPS (art. 15 comma 2 lett.
  1. , o un limite massimo percentuale, ponendo a confronto due grandezze già in possesso dell’Agenzia delle Entrate: il debito IVA scaduto complessivamente non versato dal soggetto passivo e il volume d’affari risultante dall’ultima dichiarazione annuale IVA presentata dal contribuente.

Con l’applicazione di uno dei due correttivi sopra indicati l’obbligo di segnalazione ex art. 15 CCI diventa uno strumento semplice, oggettivo, incontrovertibile, efficace ed efficiente in termini di restituzione di falsi positivi o negativi e quindi privo quasi del tutto di possibilità di contenzioso.

Si può inoltre ritenere che la segnalazione ex art. 15 CCI diventerebbe simile a quella già esistente di cui all’art 21-bis comma 5 del DL 78/2010, ovvero la “lettera di compliance” che consente anche oggi all’impresa di sanare la sua posizione con lo strumento del ravvedimento operoso ex D. Lgs 472/1997 mediante l’applicazione di sanzioni ridotte rispetto alla previsione di cui all’art. 15 comma 2 ovvero dell’avviso bonario ex art. 3-bis del **D. Lgs 472/1997 mediante l’applicazione di sanzioni ridotte rispetto alla previsione di cui all’art. 15 comma 2 ovvero dell’avviso bonario ex art. 3-bis del D. Lgs 462/1997 dandogli quindi un’opportunità in più.

Si ritiene in ogni caso che, avendo voluto il Legislatore inserire nella norma elementi aziendalistici, una revisione del testo utilizzando gli strumenti più moderni e più idonei delle teorie aziendalistiche sarebbe auspicabile e salvaguarderebbe le imprese dai “falsi positivi” che l’applicazione della norma così come si presenta sicuramente genererà.

  1. Il principio contabile OIC 6, Ristrutturazione del debito e informativa di bilancio, definisce una situazione di difficoltà finanziaria “quando il debitore presenta un rapporto squilibrato tra il fabbisogno finanziario e le fonti di finanziamento, tale da essere inadempiente alle scadenze degli impegni assunti”, ravvisando i seguenti indicatori: “a. il debitore è in una situazione di difficoltà ad adempiere ad alcune delle sue obbligazioni, per capitale e/o interessi; b. vi possono essere fondati dubbi in merito al fatto che il debitore si trova in una situazione di continuità aziendale (going concern); c. il debitore stima che i flussi finanziari generati dalla propria gestione non siano sufficienti ad estinguere il debito sia in termini di quota capitale che di quota interessi, in base agli originali termini contrattuali e fino alla sua scadenza; d. il debitore non è in grado di ottenere risorse finanziarie a tassi correnti di mercato, per debiti con caratteristiche similari non oggetto di ristrutturazione se non dall’attuale creditore”.
  2. Le cause di crisi possono essere classificate in:
  1. CARAMIELLO C., Indici di bilancio, Giuffrè, Milano, 1993, pag 3. In questo senso anche FACCHINETTI I., Le analisi di bilancio, Il Sole 24 Ore, Milano, 2000.
  2. È possibile adottare anche un parametro diverso come il ciclo operativo della gestione. Tuttavia, l’esercizio è il parametro temporale che ha trovato maggiore diffusione nell’analisi del bilancio in base al fatto che esso non è equivocabile in quanto il periodo temporale per la rappresentazione degli effetti delle operazioni di gestione è sempre indicato in dodici mesi, anche laddove la data di inizio e fine dell’esercizio non dovessero essere allineate al 1 gennaio ed al 31 dicembre
  3. legge n. 116 del 2014,
  4. L' analisi di bilancio per indici e per flussi. Profili teorici e dinamiche operative. Pierpaolo Ceroli, Marco Ruggier 2013
  5. Gli aggregati rappresentativi delle risorse finanziarie possono essere indicate come segue: risorse totali (o Total Found); capitale circolante netto (secondo varie configurazioni); liquidità immediate (eventualmente comprensive anche delle risorse “equivalenti” come i titoli facilmente negoziabili); posizione finanziaria netta a breve; posizione finanziaria complessiva. La letteratura prevalente sull’analisi per flussi può essere ricondotta ai seguenti autori. Mariani-Silva Il controllo dei flussi di cassa 2014
  6. G. Russotto. EMERSIONE ANTICIPATA DELLA CRISI: E’ POI COSÌ NECESSARIO L'ART. 13?Il Caso 4 dicembre 2018
  7. G. Russotto. EMERSIONE ANTICIPATA DELLA CRISI: E’ POI COSÌ NECESSARIO L'ART. 13?Il Caso 4 dicembre 2018
  8. Cfr, Michele Bana - Nella riforma fallimentare allerta IVA dell’Agenzia delle Entrate da chiarire. Eutekne.Info 29.11.2018